Santini bruciati e punture con il dito. Folclore? Tutt’altro. I giuramenti e i rituali di affiliazione nelle organizzazione mafiose sono riti di passaggio in cui si condensano simbologie sacre in gran parte mutuate dal rito cattolico. E che segnano l’ingresso in una «nuova vita». Si tratta del «battesimo» del nuovo mafioso.
Secondo le testimonianze rilasciate da alcuni collaboratori di giustizia il rituale di affiliazione permette di entrare in una sfera esistenziale diversa. Si abbandona un mondo per varcare i confini di un altro, fino a quel momento ignoto: l’organizzazione mafiosa.
Tommaso Buscetta, tra i pentiti più celebri della storia di Cosa Nostra, ha raccontato il suo ingresso nella mafia siciliana, avvenuto nel 1948. L’ingresso di Buscetta nel sodalizio criminale è avvenuto con una formula di affiliazione: «Le mie carni devono bruciare come questa “santina” se non manterrò fede al giuramento»[1].
La forme e i modi in cui vengono celebrati i rituali mafiosi erano già conosciuti a fine Ottocento. Nel 1877 durante il processo alla cosca monrealese degli «Stuppagghieri» viene descritto il rituale di affiliazione a questa società segreta.
«L’iniziato si inoltra nella sala e si ferma in piedi innanzi a una tavola sovra cui trovasi spiegata la effigie di un santo qualsiasi purché sia un santo. Offre ai due compari la sua mano destra e i due compari punzecchiando per mezzo di un ago il polpastrello del pollice destro ne fanno stillare tanto sangue che basti a bagnarne l’effigie del santo. Sopra codesta effigie insanguinata, l’iniziato presta il suo giuramento e quanto il giuramento è prestato in mezzo a segrete parole degli anziani, lo iniziato va tenuto a bruciare alla candela accesa di rito la santa effigie insanguinata, e l’iniziato ha così preso il suo battesimo ed è salutato compare. La solenne cerimonia che si celebrava in sezioni riunite, e alla presenza di capi e sottocapi, non escludeva però il rito sommario in certe località, come per esempio in un carcere giudiziario»[2].
Il rituale di affiliazione non è un’esclusiva delle mafie italiane, cioè Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra. A qualunque latitudine del globo pare che ogni organizzazione criminale celebri i suoi rituali di iniziazione per i nuovi membri. Secondo il sociologo Federico Varese, autore del libro «Vite di Mafia. Amore, morte e denaro nel cuore del crimine organizzato», i riti servono a stabilire il principio di uguaglianza tra i mafiosi. «La cerimonia cancella in maniera esplicita ogni traccia della precedente posizione sociale. Non importa di chi sei figlio o la tua classe sociale: il requisito principale per essere ammessi è la volontà di abbracciare una nuova identità».
Nel suo libro Varese porta l’esempio dei «Vory», i membri della mafia russa post sovietica. Chi entra a far parte del sodalizio criminale deve recitare regole precise e tatuarsi sul proprio corpo il simbolo del nuovo status. I tatuaggi più gettonati tra i «Vory» sono i crocifissi, che simboleggiano l’autorevolezza della persona, oppure le cupole di una chiesa ortodossa, che indicano il numero di condanne ricevute. «Per i Vory, il carcere è un rito di passaggio ineluttabile», scrive Varese[3].
Secondo il sociologo il rituale di affiliazione non si discosta molto da quello delle mafie nostrane:
«Alla cerimonia assistono «Vory» provenienti da altre parti della Russia: ciò significa che il rito non riguarda una sola famiglia. La presenza della Bibbia sottolinea la natura religiosa dell’evento. Uno scopo fondamentale della cerimonia è lasciare un segno nella psiche dell’affiliato e dargli la sensazione di essere entrato a far parte di un’entità superiore, benedetta da Dio»[4].
I rituali di affiliazione servono quindi a nobilitare l’appartenenza a un gruppo criminale. Troppo spesso sono stati sottovalutati o descritti come un aspetto folcloristico. Viceversa rappresentano un elemento cruciale per gli affiliati. Nel linguaggio mafioso assumono un particolare significato: non c’è alcuna possibilità di tornare indietro.
[1] Diego Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino, 1992, pp. 367-369.
[2] Cit. in Umberto Santino, La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico, Melatempo, Milano, 2017 p. 220.
[3] Federico Varese, Vita di mafia. Amore, morte e denaro nel cuore del crimine organizzato, Einaudi, Torino, 2017, p. 9.
[4] Ibid., p. 13.
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.