Joe Biden sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti in un processo elettorale che di primati ne ha tanti a cominciare dalla partecipazione, la più alta degli ultimi 120 anni – e che sembra in questo senso capovolgere lo storico astensionismo statunitense. Se Biden ha preso moltissimi voti, più di ogni altro presidente, anche il suo avversario Donald Trump non è stato da meno (ha ampliato la propria base di 5 milioni) e questo significa che l’analisi del voto, considerando anche che mancano i dati disaggregati, è molto complessa e non riducibile a classificazioni arbitrarie.

Partiamo con un confronto con il 2018, le midterm di quell’anno furono per molti aspetti storiche: anche in quel caso la partecipazione al voto fu elevata – in questo senso il 2020 segnala una conferma e una crescita di questa tendenza; il 2018 fu chiamato l’anno della donna, considerato l’elevato numero di candidate (257) ed elette (127): quest’anno le donne candidate sono state 318, di cui 117 afroamericane, ad essere elette sono state ben 134; terza tendenza che si mantiene dal 2018: la centralità delle minoranze e la capacità di mobilitare il voto. Tendenze riassunte alla perfezione nella vice di Biden, Kamala Harris: donna, di colore, figlia di immigrati con origini del sud est asiatico.

Veniamo a che cosa non è andato per il Partito democratico che non ha ottenuto i risultati che molti si aspettavano. La blue wave, l’onda blu non c’è stata anche se è stato riconquistato il blue wall: il Midwest che Trump nel 2016 aveva vinto per un soffio. Una riconquista dovuta alla capacità di mobilitare il proprio elettorato e che acutizza una volta ancora il divario tra città e campagna, tra elettori legati ad un mondo economico rurale ed uno urbano – il che dovrebbe far riflettere chi ancora è convinto del “tradimento” dei blue collar che avrebbero votato Trump nel 2016. Quest’anno si eleggevano anche undici governatori: si trattava per lo più di riconferme e i democratici non vanno oltre questa soglia (tre governatori), segno che non riescono ad avanzare all’interno dei singoli stati.

Un risultato disatteso è, inoltre, quello del Congresso: il Partito democratico mantiene il controllo della Camera dove però perde quattro seggi e il GOP ne guadagna ben cinque; al Senato ci si aspettava un controllo democratico: la situazione rimarrà di stallo 48 a 48 senatori per entrambi i partiti fino a gennaio, quando ci sarà il ballottaggio per i due seggi della Georgia. Si preannunciano quindi due anni difficili per il presidente eletto, che dovrà fare i conti con parte del ramo legislativo ostile – il che potrebbe portarlo ad optare per gli ordini esecutivi, come probabilmente farà nei primi giorni di governo per rovesciare alcune decisioni del suo predecessore, ad esempio rientrando nell’accordo per il clima di Parigi.

Arriviamo ai grandi convitati di pietra dei commenti post elettorali: gli ispanici, categoria estremamente eterogenea ed artificiosa (fu coniata negli anni Settanta per i censimenti), difficilmente riducibile ad una binarietà che li vede come tradizionalmente conservatori (ad esempio i cubani) o comunque pro Trump –un esempio su tutti: Alexandria Ocasio – Cortez è ispanica – anche perché composta da nazionalità di origine diversa. Molto si è detto sul voto ispanico che non avrebbe aiutato Biden come si pensava. Il voto di questo gruppo etnico rimane, per la verità, sostanzialmente lo stesso che ebbe Clinton nel 2016 ma, pur in assenza di dati disaggregati, è possibile avanzare alcune riflessioni ulteriori. Trump prende più voti in Florida e nei collegi a Nord del Rio Grande in Texas tra gli ispanici rispetto alle elezioni passate. Allo stesso tempo Biden riesce a rimanere in testa a lungo in Texas dove perde con il 46,3% dei voti: come interpretare questi dati? Innanzitutto è il segnale che probabilmente la geografia elettorale sta cambiando – non è una novità, è già successo in passato, ad esempio fino agli anni Sessanta il sud era una roccaforte democratica – perché sta cambiando la composizione dell’elettorato, probabilmente in maniera favorevole ai dem. Come stia mutando questa composizione lo sappiamo: donne e minoranze trascinano il voto. Ciò lascia quindi presumere che alcuni segmenti di ispanici abbiano votato largamente per Biden in Texas – e un segnale di questa nuova tendenza lo si vide con la candidatura di Beto O’Rourke al Senato nel 2018.

Qualche dato ancora prima di chiudere.

Il voto giovane va in larga parte ai democratici, ma non vi è la mobilitazione che in molti si aspettavano. C’è una crescita rispetto al 2016 del Partito democratico nelle città e nei suburbs e del GOP nelle campagne. Il voto degli evangelici – come vi abbiamo raccontato nel nostro podcast il voto religioso è stato fondamentale per Donald Trump – sembra essere calato del 5-6% per il candidato repubblicano. Tra le motivazioni al voto spiccano le differenze: per i democratici è fondamentale contenere il virus, per i repubblicani l’economia; le proteste per la violenza della polizia sono state centrali per nove elettori su dieci, una centralità che hai aiutato Joe Biden e che è arrivata dopo la morte di George Floyd – e in questo senso c’è da presumere che Floyd sia stato un turning point nella campagna elettorale.

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