Sono trascorsi due anni dall’inizio delle indagini preliminari per far luce sull’assassinio di Giulio Regeni, dottorando dell’Università di Cambridge. Quasi cinque anni dal 25 gennaio 2016, quando il corpo nudo e privo di vita del ricercatore friulano, reso irriconoscibile dalle sevizie e le torture inflittegli, veniva ritrovato in un fosso nella periferia del Cairo. Regeni aveva 28 anni.

Nonostante gli sforzi della magistratura italiana gli esiti dell’inchiesta sono risultati quasi vani per l’ostruzionismo di stato del governo egiziano e per la scarsa, per non dire pressoché assente, azione dei governi italiani. All’omicidio di Giulio si è poi aggiunta l’azione punitiva nei confronti del giovane attivista e studente dell’Università di Bologna Patrick Zaky, in carcere dal 7 febbraio 2020 per aver commesso il “reato” di difendere i diritti umani, in particolare quelli della comunità LGBQT+. In entrambi i casi si è andati a colpire degli studiosi, accusandoli di essere omosessuali perché l’omosessualità è un reato in Egitto.

Eppure qualcosa in questi giorni si è mosso.

Il 20 novembre Conte telefona ad al – Sisi: un colloquio, secondo Repubblica, formale e cordiale in cui si è discusso della collaborazione tra Italia ed Egitto nei campi politico, militare ed economico. Ma non nel campo giudiziario e ciò non è un caso. Di Regeni si è parlato, è vero, ma il fatto che Il Cairo nella sua nota non abbia sottolineato la cooperazione nel campo giudiziario è significativo.

24 novembre: la Commissione parlamentare di inchiesta su Giulio Regeni ascolta Matteo Renzi, in qualità di presidente del Consiglio all’epoca dell’omicidio. Renzi sostiene di essere stato avvertito della scomparsa di Regeni solo il 31 gennaio. L’allora ambasciatore in Egitto Maurizio Massari aveva dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata era stata informata della sparizione il 25 gennaio alle 23:30. Un comunicato del ministero degli Esteri, inoltre, ha precisato che le Istituzioni governative italiane e i servizi erano stati informati il 25 gennaio. L’allora ministro degli esteri Gentiloni, nell’audizione alla Commissione parlamentare il 3 settembre scorso confermava che Massari era stato avvertito il 25 gennaio e di essere stato avvertito il 26, chiamando poi il ministro degli Esteri egiziano il 31 gennaio (solo il 2 febbraio Massari è stato ricevuto dal ministro egiziano). Smentito, Renzi ha rilasciato una nota stampa in cui comunicava che la Farnesina era stata informata a differenza del presidente del Consiglio. Risulta strano che sia come affermato da Renzi, visto che si tratta della sparizione di un concittadino all’estero. Ma ancora: tra il 27 ed il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato quella egiziana. I servizi italiani fanno riferimento al presidente del Consiglio: come è possibile che anche loro non lo abbiano avvertito?

La tempestività, in casi come quello Regeni, è fondamentale. Ma ancora più grave è la scarsa chiarezza emersa dopo l’audizione di Renzi poiché essa è uno degli innumerevoli segnali del disinteresse della politica italiana nei confronti del caso Regeni ed oggi di quello Zaky, in nome di una politica volta a favorire scambi commerciali con Il Cairo e leesigenze di politica mediterranea.

25 novembre: la Camera ha dato il via libera, con 451 voti a favore e uno contrario, alla proroga della Commissione di inchiesta sul caso Regeni fino al 31 ottobre 2021; rimane il termine di due mesi per la redazione della relazione conclusiva sui risultati dell’indagine. La proroga è stata concessa perché secondo i gruppi parlamentari il covid avrebbe rallentato i lavori della Commissione. Ciononostante non sono state effettuate variazioni alla dotazione finanziaria, ritenuta sufficiente.

26 novembre: secondo Repubblica nell’inchiesta condotta dal procuratore Sergio Colaiocco ci sono due nuovi testimoni che avrebbero visto Giulio mentre veniva rapito da alcuni agenti del National Security egiziano. I testimoni affermano, inoltre, di aver visto Regeni in due caserme, una vicino la metropolitana di Dokki, l’altra dove verrebbero condotti i cittadini stranieri. Testimonianze fondamentali perché proverebbero che il governo egiziano era a conoscenza della scomparsa, delle torture e dell’assassinio di Giulio Regeni nonostante le smentite in tal senso arrivate durante questi anni. Che Il Cairo ne fosse a conoscenza è un’ipotesi che è stata avanzata sin da subito in Italia perché risulta estremamente improbabile che un paese come quello egiziano, che si regge sul coordinamento tra forze di polizia e servizi segreti al comando centralizzato di al – Sisi, non mettesse al corrente i vertici del regime. Non solo: come testimoniano le indagini di Amnesty International la violazione dei diritti umani, la tortura e l’omicidio sono la prassi delle forze di polizia e militari e dei servizi segreti egiziani già da prima del caso Regeni.

30 novembre: la Procura di Roma incontra in videoconferenza quella egiziana.L’esito del confronto: la magistratura italiana procederà da sola nel processo verso i cinque agenti del National Security accusati dell’omicidio Regeni; la procura egiziana sostiene ancora la tesi, smentita dai magistrati italiani, secondo cui il ricercatore sarebbe stato ucciso da una banda di rapinatori – i cinque presunti appartenenti alla banda sono stati uccisi dalla polizia egiziana nell’aprile 2016 – pertanto procederà ad un processo a loro carico. Per l’Egitto il mandante materiale dell’omicidio rimane ignoto. Il Procuratore generale egiziano, inoltre, avanza dubbi sul quadro probatorio delineato dalla magistratura italiana, sostenendo che le prove sono fragili. L’unica nota positiva, dovuta agli sforzi dei magistrati italiani, è che la magistratura egiziana si impegna a riconoscere le decisioni assunte dalla Procura romana anche se questa non farà altrettanto per l’esito delle indagini egiziane. È quanto emerge dal comunicato congiunto delle due magistrature,nel quale però non vi è mai il riferimento alla parola «tortura»,come sottolineato dal professore di Diritto internazionale dell’Università La Sapienza Sergio Marchisio alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Regeni. L’Egitto inoltre non risponderà alla rogatoria, inviata più di un anno fa, con cui l’Italia chiedeva informazioni per verificare le dichiarazioni di due testimoni che sostenevano di aver visto Regeni mentre veniva rapito dagli agenti del National Security; oltre a ciò l’Egitto non fornirà gli indirizzi dei cinque membri dei servizi segreti indagati dalla procura romana che così non potrà loro notificare gli atti. Solo dieci giorni fa Conte telefonava ad al – Sisi: la chiusura delle indagini sottolinea l’inefficacia della pressione diplomatica italiana, causata da conflitti di interesse e mancate prese di posizione nel corso degli anni.  Come affermato dal professore di Diritto internazionale dell’Università di Siena Riccardo Pisillo Mazzeschi, audito dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni il 1 dicembre: «le misure finora prese [dall’Italia] possono essere considerate “poco amichevoli” ma non vanno al di là di questo».

1 dicembre: sempre nel corso dell’audizione alla Commissione parlamentare,  il professore Marchisio afferma: «occorre che l’Italia precostituisca le condizioni per un eventuale giudizio di fronte alla Corte internazionale dell’Aia. […] I tempi sono maturi per questo passo». È, insomma, necessario che l’Italia, attraverso il suo governo e i canali istituzionali, prenda una posizione forte, chiara e netta come chiesto anche dai genitori di Giulio Regeni.

10 dicembre: i magistrati italiani informano la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni della chiusura delle indagini preliminari iniziate a gennaio – febbraio 2016. Nel registro degli indagati sono iscritti quattro agenti del National Security egiziano: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdel Sharif. L’ultimo degli indagati sarebbe il torturatore e l’assassino di Regeni. Sempre secondo la ricostruzione presentata alla Commissione parlamentare, gli agenti egiziani avrebbero torturato il giovane ricercatore per nove giorni «infliggendogli sofferenze inaudite» anche con strumenti contundenti e affilati. Giulio Regeni moriva soffocando per le conseguenze delle sevizie. Nello stesso giorno i genitori di Giulio, Paola Deffendi e Claudio Regeni rilasciano una conferenza stampa sottolineando, ancora una volta, l’inazione del governo e chiedendo il ritiro dell’ambasciatore italiano dal Cairo, di dichiarare l’Egitto paese non sicuro e di fermare l’export di armi e i rapporti commerciali.

Un problema estremamente rilevante e che ostacola gli sforzi dei magistrati italiani nel far luce sull’assassinio di Giulio Regeni è il contesto internazionale. L’Egitto è una potenza regionale che ha rafforzato la sua posizione appoggiando, da un lato, Khalifa Haftar divenendo così un paese imprescindibile per risolvere la questione libica e quindi gestire il flusso di migranti; dall’altro al – Sisi ha rafforzato la posizione dell’Egitto grazie all’alleanza nata sotto l’amministrazione Trump e che include Arabia Saudita e Israele.

Ma non solo questo: con l’Egitto l’Italia ha numerosi affari in sospeso, nonostante il calo dell’export dal 2016. L’Eni ha numerose concessioni nel paese dei faraoni che sono fonte di ingenti guadagni. Fincantieri, inoltre, ha terminato la fregata Spartaco, già ribattezzata dagli egiziani al – Galala il cui equipaggio si sta addestrando in Italia, e si prepara ad inviare al Cairo la seconda fregata, la Emilio Bianchi F599: un affare che vale 1,2 miliardi di euro. Ma non si ferma qui la vendita di armi e mezzi militari all’Egitto da parte del nostro paese: si aggiungeranno, infatti, 24 cacciabombardieri Typhoon e 24 aerei addestratori M346, con un guadagno per Roma tra i nove e i dieci miliardi. Nel 2019 le vendite militari all’Egitto da parte dell’Italia erano di 871, 7 milioni di euro rispetto ai 69 milioni del 2018 e ai 7,4 del 2017.

L’export militare dell’Italia all’Egitto comprende anche armi leggere, usate dalla polizia per soffocare le manifestazioni e rafforzare quel potere che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni e all’incarcerazione di Patrick Zaky. Come può essere credibile il governo italiano nella ricerca della verità e della giustizia se in ballo ci sono tutti questi interessi? D’altronde lo aveva detto anche l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini nel giugno 2018: «per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un paese importante come l’Egitto». E se di una questione di credibilità, oltre che di fedeltà a principi inderogabili, si tratta è difficile ritenere che la vendita delle fregate non abbia un impatto sulle capacità militari egiziane, come sostenuto dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini audito alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni il 28 luglio scorso – e d’altronde se non fossero necessarie, perché Il Cairo acquisterebbe le fregate? Posizione simile a quella di Enzo Moavero Milanesi, ex Ministro degli esteri audito alla Commissione il 22 luglio, e da Luigi Di Maio attuale inquilino della Farnesina sentito invece dalla Commissione il 16 luglio – su Di Maio è bene ricordare che lui e il Movimento Cinque Stelle in passato erano fermamente contrari alla vendita di armi all’estero: un notevole cambio di posizioni.

Conflitti di interessi che talvolta si accompagnano a decisioni poco opportune e che gettano discredito sulla reale volontà politica di agire per fare verità. È il caso, ad esempio, di Angelino Alfano, ministro dell’Interno all’epoca della sparizione di Regeni e ministro degli Esteri tra il 12 dicembre 2016 ed il 1 giugno 2018. Già il 30 giugno 2018 la BonelliErede Pappalardo, un grande studio legale con sede principale a Milano, annunciava sul proprio sito che dal 2 luglio 2018 l’ex ministro sarebbe entrato nel nuovo focus team dedicato all’Africa e al Medio Oriente, affiancato da Ziad Bahaa – Eldin, vicepremier egiziano con al – Sisi.

Nel caso di Giulio Regeni non si può parlare di realpolitik: solo una visione miope ed inconsapevole delle relazioni internazionali può crederlo. Una vera realpolitik, un approccio “realista” – espressione abusata da chi spiega (e così giustifica) l’affare Regeni nei termini della ragion di Stato – è perfettamente consapevole che nelle dinamiche tra Stati è fondamentale la considerazione di cui si gode all’estero. Dimostrare di essere incapaci di difendere i propri cittadini all’estero, di essere incapaci di far valere la propria forza quando uno studente come Zaky viene incarcerato ingiustamente, ma di essere invece in grado di fare affari a uno Stato come l’Egitto dimostra debolezza e inaffidabilità nonché miopia nella classe dirigente. Non si dica, quindi, che l’Italia ripudia la guerra e difende i diritti umani se alla prova dei fatti avviene il contrario.

La vicenda Regeni appare ancora più grave se pensiamo che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è un accademico e che come tale dovrebbe avere al primo posto la tutela della ricerca e dei ricercatori. È utile ricordare, inoltre, che Conte non è l’unico accademico presente: il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi era il Preside della Conferenza dei rettori delle università italiane. Inoltre alcuni ministri hanno conseguito dei dottorati, come ad esempio il guardasigilli Alfonso Bonafede o il ministro per il Sud e la coesione sociale Giuseppe Provenzano, che certamente saranno consapevoli di quanto detto fino ad ora.

Una domanda, forse, si starà ponendo il lettore: perché arrestare, torturare ed assassinare Giulio Regeni?

Partiamo dal fatto che non può essersi trattato di un errore: in un regime come quello egiziano, in cui tutto è centralizzato e predominano i servizi segreti, un errore lungo una settimana non è plausibile.

Giulio Regeni, come abbiamo scritto nel nostro ebook, è stato arrestato per un motivo che ancora non si conosce ed è stato arrestato per una volontà politica anch’essa tutt’ora sconosciuta, ma di cui gli intenti sono chiari: colpirne uno per educarne molti. Perché l’attacco ad un ricercatore è un attacco ad ogni studioso, alla libertà di coscienza di ognuno.

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