Pubblichiamo la seconda puntata della nostra serie su Dante e il suo rapporto speciale con Venezia.
Qua potete recuperare il primo episodio.
Ogn’altra cosa m’haverei più tosto creduto vedere che quella che corporalmente ho trovato et veduto delle qualità di questo Eccelso Dominio:«Minuit praesentia famam», se ciò che io mi vaglia di quel passo di Vergilio. Io m’haveva fra me medesimo imaginato di dover trovare quei nobili et magnanimi Catoni, et quei rigidi Censori de’ depravati costumi, insomma tutto quello ch’essi, con habito pomposissimo simulando, voglion dar a credere all’Italia misera et afflitta di rappresentare in sé stessi: et forse che non si fanno chiamare «Rerum Dominos gentemque togatam»? Misera veramente et malcondotta plebe, da che tanto insolentemente oppressa, tanto vilmente signoreggiata, tanto rudelmente vessata sei da questi huomini nuovi, destruttori delle memorie antiche et autori di ingiustissime corruptele! Ma che vi dirò io, Signore, dell’ottusa et bestiale ignoranza di così et venerabili padri?
Io, per non defraudare così la grandezza vostra come l’autorità mia, giungendo alla presenza di così canuto et maturo Collegio, volsi fare l’uffitio mio et l’imbasciata vostra in quella lingua la quale, insieme con l’imperio della bella Ausonia, è tuttavia andata et andrà sempre declinando, credendo forse ritrovarla in questo estremo angulo sedere in maestà sua per andarsi poi divulgando insieme con lo stato loro per tutta l’Europa almeno. Ma oimè, che non altrimenti giunsi nuovo et incognito peregrino che se testé fussi giunto dall’estrema et occidentale Thile; anzi poteva io assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s’io fussi venuto dai favolosi Antipodi, che non fui ascoltato con la facondia romana in bocca; perché non sí tosto pronuntiai parte dell’esordio ch’io m’haveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge:«Lux orta est iusto et rectis corde laetitia», che mi fu mandato a dire che io cercassi d’alcuno interprete o che mutassi favella. Così, intra stordito et sdegnato, nescio qual più, pur cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu loco poco più familiare et domestica che la latina si fusse; onde, in cambio di portar loro allegrezza et diletto, seminai nel fertile campo della ignoranza di quell[i] abbondantissimo seme di maraviglia et di confusione. Et non è da maravigliarsi punto ch’essi il parlare italiano non intendino: ché, da progenitori Dalmati et Greci discesi, in questo gentilissimo terreno altro recato non hanno che pessimi et vituperosissimi costumi, insieme con il fango d’ogni sfrenata lascivia.
Per il che mi è parso darvi questo breve avviso della legatione che per vostra parte pur in parte ho esseguita, pregandovi che, quantunque ogni autorità di comandarmi habbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi: delle quali né voi riputatione, né io per alcun tempo consolatione alcuna spero. Fermerommi qua pochi giorni per pascere gl’occhi corporali, naturalmente ingordi delle novità et vaghezze di questo sito. Et poi mi trasferirò al dolcissimo porto dell’otio mio tanto benignamente abbracciato dalla real cortesia vostra.
Di Vinegia alli xxx di Marzo MCCCXIV
L’humil servo vostro Dante Alighieri Fiorentino
Eccola, nella forma completa, la citata lettera di Dante a Guido Novello da Polenta, portata la prima volta all’attenzione del mondo nel 1547 da Anton Francesco Doni, che la pubblicò in Prose antiche di Dante, Petrarchae et Boccaccio, et di molti altri nobili et virtuosi ingegni, nuovamente raccolte, ma sulla sua autenticità, ritenuta assoluta da Plumbre, Scheffer-Boichost e Padon[1], si è dubitato a lungo. L’idea era che fosse solo una macchinazione del Doni, costruita attingendo da Boccaccio e Filippo Villani, e, sebbene Giorgio Padoan abbia cercato di vedere lo scritto sotto un’altra luce, tutt’oggi rimane lo scetticismo.
I motivi dietro questi tentennamenti sono diversi: la già citata datazione (“xxx di Marzo MCCCXIV”), vista dai più prova eclatante di falsità (es. Zingarelli[2]), contrapposti ad una minoranza che pensa sia semplicemente un errore di copiatura; quel “Minuit praesentia famam” (paragrafo 1) attribuito a Virgilio, ma in realtà del De bello Gildonico di Claudiano e sembrerebbe assurdo pensare che proprio Dante abbia sbagliato un passo del suo «duca»; problemi di carattere storico-filologico con quei “Messer Guido da Polenta Signor di Ravenna” e “Serenissimo Doge” (par. 2), facenti storcere il naso agli storici della lingua, i quali li ritengono inadatti al XIV secolo; le acide parole con cui vengono descritti i veneziani, accusati perfino di non capire l’«italiano» perché discendenti di stranieri (par. 2: “Et non è da maravigliarsi punto ch’essi il parlare italiano non intendino: ché, da progenitori Dalmati et Greci discesi”); l’incapacità dei rappresentanti della Repubblica di non intendere il latino, mezzo di comunicazione nella politica e nelle ambasciate, utilizzata ovunque nell’Europa cristiana (par. 2: “volsi fare l’uffitio mio et l’imbasciata vostra in quella lingua la quale, insieme con l’imperio della bella Ausonia, è tuttavia andata et andrà sempre declinando, […]. Ma oimè, che non altrimenti giunsi nuovo et incognito peregrino che se testé fussi giunto dall’estrema et occidentale Thile; anzi poteva io assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s’io fussi venuto dai favolosi Antipodi, che non fui ascoltato con la facondia romana in bocca; perché non sí tosto pronuntiai parte dell’esordio ch’io m’haveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge:«Lux orta est iusto et rectis corde laetitia», che mi fu mandato a dire che io cercassi d’alcuno interprete o che mutassi favella.”); ed infine la lingua del documento in sé, il volgare, pare strano, infatti, che il Poeta si sia rivolto al Signore di Ravenna, ad un’autorità, non in latino, probabilmente conosciuto dal colto Guido Novello. Contro tali accuse si schiera Giorgio Padoan[3], il quale tenta di riabilitare la veridicità di data e modo di esprimersi – a suo parere tipicamente dantesco – affermando che in origine l’epistola era in latino e quanto trasmessoci dal Doni è una copia tradotta in un volgare quattro-cinquecentesco (idea già avuta dal Fontanini[4]).

Al di là delle numerose interpretazioni e lavori, il testo ci racconta che tra i motivi del fallimento dell’ambasciata vi fu il non aver permesso a Dante di poter parlare, o perlomeno non gli fu consentito farlo in latino e, probabilmente non avvezzo alla lingua veneta, si vide costretto all’utilizzo del volgare fiorentino, mal capibile, se non incomprensibile, ai veneziani della pre-«riforma bembiana» (par. 2: “Così, intra stordito et sdegnato, nescio qual più, pur cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu loco poco più familiare et domestica che la latina si fusse; onde, in cambio di portar loro allegrezza et diletto, seminai nel fertile campo della ignoranza di quell [i] abbondantissimo seme di maraviglia et di confusione.”). Perché mai il Doge e/o il Senato – ipotizzando la veridicità del racconto – non permisero all’Alighieri di parlare in latino? Se avessero voluto respingere i missi del Signore di Ravenna, perché non proibirono loro udienza fin dall’inizio? Teniamo presente che il doge era la suprema autorità (simbolica) a Venezia ed arrivare a lui non doveva essere cosa di poca fatica e lo stesso, sicuramente, valeva per il Senato. Forse il Soranzo ed i senatori non sapevano della sua presenza dantesca nell’ambasciata e/o del suo ruolo di portavoce? Ne dubito, era impossibile arrivare al cospetto di uomini del genere prima che l’avessero saputo. Per Filippo Villani[5] il gesto nacque dal timor dell’oratoria del Fiorentino, talmente aulica da poter mutare i pensieri delle genti; quindi il Cronista ci starebbe dicendo che alcuni tra gli uomini più potenti del Continente ebbero paura della dialettica del Poeta? Lo credo ancor più improbabile, dopotutto costoro – sicuramente colti – erano a capo di un influente – mi si conceda il termine – «Stato», vedo difficile immaginarli incapaci di tener testa ad un abile oratore; per questo motivo, ritengo apologetiche le parole del Villani. Più credibile è la spiegazione data da Padoan[6]: il duro gesto veneziano fu volto a intimorire e spingere i ravennati ad accettare le condizioni dei lagunari, un atteggiamento più che comprensibile se si va a conoscere – sempre attraverso Padoan – il doge Giovanni Soranzo, uomo imponente d’aspetto ed autorevole nei modi, dedito alla politica e la guerra, capace di far tornare sotto il vessillo di San Marco le città dalmate ribelli con il solo personale ascendente.
In ogni caso, l’ambasciata non andò a buon fine, così l’Alighieri, pregato infine Guido Novello di non inviarlo più per simili imprese, si avviò, dopo alcuni giorni, verso la strada di casa (par. 3: “pregandovi che, quantunque ogni autorità di comandarmi habbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi: delle quali né voi riputatione, né io per alcun tempo consolatione alcuna spero. Fermerommi qua pochi giorni per pascere gl’occhi corporali, naturalmente ingordi delle novità et vaghezze di questo sito. Et poi mi trasferirò al dolcissimo porto dell’otio mio tanto benignamente abbracciato dalla real cortesia vostra”.). Mesi avanti, dove il Fiorentino aveva fallito, altri riuscirono nell’impresa di strappare la pace (4 maggio 1322).
La prossima settimana pubblicheremo “L’eterno legame fra Dante e Venezia: la fine del cammino”, ultima puntata della serie sul rapporto tra il poeta fiorentino e la città lagunare.
[1] : Cfr. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 20-27; G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, pp. 9-37.
[2] : Vd. N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, p. 738. Anche Pasolini Dall’Onda la etichettò come menzogna artificiale (vd. P. D. Pasolini Dall’Onda, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna: memorie raccolte da Pietro Desiderio Pasolini, pp. 152-153).
[3] : Vd. G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, pp. 19-32.
[4] : Cfr. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 25-26.
[5] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, G. C. Galletti (a cura di), Firenze 1847, https://archive.org/stream/liberdecivitati00villgoog#page/n22/mode/2up, pp. 10-11 e Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, Giuliano Tanturli (a cura di), Antenore, Padova 1997, pp. 81-83.
[6] : Vd. G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, p. 19.
Articolo a cura di Gianluca Lorenzetti.
© Riproduzione riservata