Pubblichiamo l’ultima puntata della nostra serie su Dante e il suo rapporto speciale con Venezia.
Qua potere recuperare il primo e il secondo episodio.
Le uniche certezze sul viaggio di ritorno del Poeta sono che riuscì a rivedere Ravenna e lì morì in tempi non troppo distanti, ma sul come arrivò in Città e le tempistiche esistono solo ipotesi. Filippo Villani[1] scrive che, ad un certo momento del soggiorno, Dante chiese di ripartire a causa di problemi di salute, ma l’appello per un viaggio marittimo fu declinato dai veneziani, convinti che se si fosse imbarcato avrebbe convinto il capitano a rinunciare alla guerra, così fu costretto a fare la tratta terrestre. Quello trasmessoci dal Cronista è, ovviamente, volto ancora ad esaltare la figura del concittadino, ma potrebbero esserci tracce di verità, dopotutto fu un personaggio legato alla politica, amico e corrispondente del cancelliere Coluccio Salutati e co-autore della Nuova Cronica dello zio Giovanni e del padre Matteo, quindi è possibile che abbia ricavato informazioni entrando in contatto con fonti e persone inaccessibili ad altri. Innanzitutto, perché Venezia avrebbe proibito a Dante d’imbarcarsi? Stando al Villani egli era malato, dov’era la pietà cristiana della Repubblica? Secondo Ricci[2] il governo lagunare non aveva alcuna ragione d’impedire al Fiorentino di veleggiare verso casa, anzi, forse furono proprio l’Alighieri e gli altri inviati a preferire il viaggio terrestre, poiché l’Adriatico era un mare troppo pericoloso, caratterizzato da burrasche, tempeste e – aggiunge Filippo Villani[3], ma non è ancora stato comprovato – dagli scontri navali tra i due schieramenti. Il rientro (come l’andata), dunque, per Ricci avvenne via terra, lungo un viaggio di tre giorni.
Giunto a Ravenna, ormai spossato, Dante pose fine alla sua esistenza. Sulla dipartita fiumi d’inchiostro bagnano la salma, colorata da tutti i pensieri che il tempo e gli uomini hanno prodotto: dalla semplice morte per febbri o malaria, al trapasso influenzato dal dispiacere di non aver servito come bramava il suo signore. Giovanni Villani in poche righe racconta: “Nel detto anno MCCCXXI, del mese di luglio, morì Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta, con cui dimorava[4]”. Quanto dice trova conferma negli studi successivi, solo un dettaglio lo condanna, quel mese di luglio considerato impossibile dagli odierni dantisti, sebbene un discreto numero di autori cinquecenteschi di Vite lo abbiano preso come veritiero (Alessandro Vellutello, Ludovico Dolce, Bernardino Daniello, Papirio Masson)[5]. Già due degli epitaffi per la tomba realizzati pochi anni dopo da Giovanni del Virgilio (Theologus Dantes: “mille trecentenis ter septem Numinis anni, / ad sua septembris ydibus astra redit.”) e Menghino Mezzani (Inclita fama: “vulnere seve necis stratus ad sidera tendens / dominicis annis ter septem mille tercenis / setenbris ydibus presenti clauditur aula.”) lo smentirebbero. Ambedue i testi presentano la data 13 (le Idi) di settembre, al giorno successivo (festa di Santa Croce), invece, la pone nel Trattatello in laude di Dante Giovanni Boccaccio, il quale ebbe modo di intervistare i ravennati che conobbero il Poeta: “mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa, […] al suo Creatore rendé il faticato spirito[6]”. Concorde con l’autore del Decameron furono tre suoi contemporanei: Filippo Villani (“Obiit poeta anno gratie MCCCXXI, idibus Septembris, quo die Sancte Crucis solemnitas celebratur[7]”), Benvenuto Rambaldi da Imola, commentatore trecentesco dell’Alighieri (“Mortuus est in MCCCXXI de mense septembris, in festo Sancte Crucis[8]”) e, nel suo Commento, Francesco di Bartolo da Buti (“finío sua vita, a dí 14 di settembre 1321[9]”). Oggi, alla questione su quale sia il giorno esatto, si risponde datando la morte alla notte fra il 13 ed il 14 settembre, non essendo in grado di assegnarlo indiscutibilmente, ma nei decenni c’è stato chi ha preferito schierarsi dalla parte di Giovanni del Virgilio o di Boccaccio e chi ha optato per il 14-15 settembre. Altri scritti, infine, non danno indizi né sul giorno, né tantomeno il mese, limitandosi a collocare il trapasso al 1321 (Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, fra Giovanni da Serravalle, fra Iacopo Filippo Foresti da Bergamo, Hartmann Shedel, Giovanni Tritemio)[10].
Quale fu la causa? Non lo sappiamo con certezza, attribuendola solitamente alla malaria, ma fu veramente così? Lo studio condotto da Fabio Frassetto[11], l’antropologo che tra il 28 ed il 31 ottobre 1921 fece parte dell’équipe incaricata di occuparsi della riesumazione delle ossa, ci fornisce l’immagine di un Dante alto circa 1,65 m – se non più basso a causa della schiena curva e della senilità di cui soffrì sicuramente negli ultimi anni di vita e che, come di norma nella vecchiaia, gli fece perdere alcuni centimetri –, sofferente di artrite vertebrale senile anchilosante, artrite cronica anchilosante e senilità precoce alla colonna vertebrale. L’analisi confermerebbe i dettagli forniti da Boccaccio nel Trattatello[12] (Ia redazione: “Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto”; IIa e IIIa redazione: “Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed […] nelle spalle alquanto curvo”) e da Villani[13] (“Fuit poeta staturae mediocris […], curvatis aliquantulum renibus incedebat”). L’unico dettaglio mancante è l’esser stato magro, un particolare molto importante se si vuole tentare di capire le cause di morte, poiché potrebbe rivelare un fisico debole, facile preda delle malattie, già afflitto da un apparato osseo danneggiato, quasi sicuramente, dall’intenso studio e dal passato militare, sul terreno di Campaldino (11 giugno 1289)[14].
Ragioniamo, adesso, sul male responsabile: purtroppo le mie personali misere ricerche non hanno dato una risposta diversa da quella finora adottata dagli studiosi, quindi mi vedo costretto a ad accettare l’ipotesi malarica, proseguendo sulla strada tracciata da chi ha passato più tempo sull’argomento. Nessuno tra Boccaccio, Manetti e Villani accenna a questa malattia, limitandosi a parlare vagamente e semplicemente di «febbri» (febris in Manetti, febribus in Villani)[15] o «infermità»(infermato in Boccaccio[16]). La teoria sulla malaria, infatti, è successiva, ma ha una sua logica: l’Italia medievale possedeva numerose aree dove il ristagnamento delle acque portava alla formazione di paludi o acquitrini ideali alla proliferazione della zanzara del genere Anopheles, responsabile del male, tra cui – elenca Mazzi[17] – il Polesine, il delta del Po, le parti incolte del Veneto, il ferrarese e la piana ravennate, guarda caso proprio le terre attraverso cui Dante, probabilmente, passò per andare a Venezia e tornare a Ravenna.

La malattia, nel caso degli esseri umani, viene iniettata dalla femmina di questa zanzara, nella quale avviene il primo ciclo di vita dei protozoi responsabili, i Plasmodium, differenziati in Vivax, Malariae, Ovale e Falciparum. I quattro generi hanno un modus operandi sostanzialmente simile, ma si distinguono fra loro per alcune varianti: Vivax ed Ovale, detti entrambi «terzana benigna», hanno un’incubazione (dalla puntura alla febbre) di 13-15 giorni, sebbene alcuni ceppi vi rimangano per mesi e la febbre si manifesti a giorni alterni; il Malariae, o «quartana», possiede tempistiche più lunghe (28-30 giorni) ed i suoi attacchi febbrili vengono interrotti da temporanea scomparsa; il Falciparum, o «terzana maligna», si sviluppa nel giro di 48 ore, ma la febbre, che scaturisce dopo 9-12 giorni d’incubazione, rispetto al Vivax e l’Ovale dura maggiormente e la riproduzione parassitaria è in molti casi illimitata, fattore cruciale riguardo la percentuale sul rischio di morte, conseguenza di malfunzionamento o insufficienza ad uno o più organi, emorragie, coma (di solito) senza risveglio a pochi giorni dall’inizio della febbre, ecc… Esternamente, l’individuo comincia ad avere intensi brividi di freddo, che dureranno più o meno un’ora, seguiti, per un tempo relativo al singolo parassita, dall’innalzamento della temperatura fino a circa 40° C ed un successivo riabbassamento febbrile e manifestazioni sudorifere.
Riprendiamo ancora la lettera del Doni: Dante informa Guido Novello che si fermerà qualche giorno per godersi le bellezze di Venezia e nessuna fonte esclude la possibilità che l’Alighieri si sia davvero trattenuto più del dovuto nella capitale della Repubblica, dove, sicuramente, quando arrivò non presentava ancora sintomi febbrili, altrimenti il Doge o/e il Senato non avrebbero mai consentito a riceverlo. I segnali malarici – stando a Filippo Villani – sarebbero comparsi durante la residenza, se ciò fosse vero, risulterebbe improbabile che Dante abbia contratto il parassita nell’Urbs sancti Marci, a meno che non vi sia stato per almeno dieci giorni circa. Un viaggiatore ne impiegava più o meno tre per andare da Ravenna a Venezia, quindi, avendo iniziato a manifestare la malattia nella Città lagunare, abbiamo nei tre giorni di viaggio, in uno di rientro a Ravenna e l’ultimo a Venezia il periodo febbrile, il quale dimostrerebbe come il Poeta non fosse stato punto a Venezia, né durante l’andata, ma nella stessa Città romagnola – o nel suo contado –, presente nell’elenco delle zone a rischio.

Tutto questo ci dà l’occasione di poter avere un’idea più precisa su quando avvenne l’ambasciata. Dante spirò fra il 13 ed il 14 settembre, ipotizzando l’arrivo al 12 e sapendo che il parassita impiega tre/quattro giorni per condurre alla morte, l’ultimo a Venezia fu il 9, massimo l’8. Teorizzando una sosta di almeno tre giorni, l’arrivo nella Città dei dogi si porrebbe al 6 o 5 e la partenza da Ravenna, quindi, al 2 o primo settembre. Infine, avendo i vari parassiti Plasmodium – eccezion fatta per il Malariae – un’incubazione in media di 12 giorni, concludo affermando che, alla luce di quanto detto, Dante venne punto nel territorio ravennate alla fine di agosto, ancora più lontano se si considera l’incubazione quasi mensile del Malariae, che porrebbe la somministrazione del parassita alla prima metà del mese. L’ambasciata, senza contare i viaggi di andata e ritorno, dunque, avvenne tra il 5/6 e l’8/9 settembre, o comunque, se si preferisce evitare affermazioni eccessivamente temerarie, all’inizio del nono mese.
Questa presentata è solo un mio breve e scarno tentativo di risposta ad uno dei molteplici interrogativi sulla vita del Sommo poeta, del quale, nel nostro caso, si conoscono solo una data post quem ed una ante quem, ovvero il 17 agosto, quando le relazioni tra Venezia e Ravenna degenerarono definitivamente, e la notte fra il 13 ed il 14 settembre, data più accreditata della morte. Non è possibile nemmeno sapere con sicurezza se fu proprio la malaria la responsabile, in quanto difficile – se non impossibile – da rilevare dalle ossa. In ogni caso, è sicuramente all’interno di quei trenta giorni che va a porsi la missione diplomatica del Fiorentino, al cui rientro, al calore dei lumi notturni, fu obbligato a riprendere il cammino per un viaggio che gli avrebbe permesso di tornar “a veder la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.[18]”
[1] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 82-83.
[2] : Vd. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 154-156.
[3] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 10. Cfr anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 81-82.
[4] : G. Villani, Nuova Cronica, G. Porta (a cura di), vol. II, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda, Parma 1991, libro X, cap. CXXXVI, p. 335.
[5] : Cfr. A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, pp. 209, 211, 213, 219.
[6] : G. Boccaccio, Vita di Dante, P. Baldan (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 1991, p. 108.
[7] : F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, p. 83.
[8] : C. Cipolla, La data della morte di dante secondo Ferreto dei Ferreti, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. 49, s. l. 1913-1914, pp. 1214-1219.
[9] : A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, p. 80.
[10] : Cfr.L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, p. 52; G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, pp. 126-127; A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, pp. 96, 194-195, 197.
[11] : Cfr. F. Frassetto, Dantis Ossa. La forma corporea di dante: scheletro – ritratti – maschere e busti, Istituto di antropologia , Bologna 1933.
[12] : G. Boccaccio, Vita di Dante, pp. 124, 226.
[13] : F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11.
[14] : Cfr. L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, pp. 32-33; G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, pp. 56-57.
[15] : G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, p. 128; F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 82-83.
[16] : G. Boccaccio, Vita di Dante, p. 108.
[17] : Vd. M. S. Mazzi, Salute e società nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 62-65.
[18] : D. Alighieri, Vita Nova, cap. XLII [XLIII], p. 714.
Articolo a cura di Gianluca Lorenzetti.
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