6 gennaio 2021: una folla di supporter di Donald Trump si raduna a Capitol Hill dove il Congresso, presieduto dal Vicepresidente Mike Pence, sta certificando i voti che eleggeranno come Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden. La Capitol Police, la polizia che si occupa della sicurezza del Congresso, non ha un numero sufficiente di agenti per gestire la folla – pochi mesi fa, durante la manifestazione pacifica di Black Lives Matter per la morte di George Floyd, il Campidoglio era invece presidiato dal’antisommossa e dalla Guardia Nazionale – nonostante la sindaca di Washington Muriel Bowser avesse fatto richiesta, nelle settimane precedenti, di maggiori effettivi. È la Casa Bianca che si occupa della sicurezza di Washington e che quindi avrebbe dovuto autorizzare le richieste di Bowser, le quali rimangono però senza risposta.
La sindaca di Washington sapeva, come molti, che quasi sicuramente qualcosa sarebbe accaduto il 6 gennaio: è sufficiente un giro nei vari social, non solo di estrema destra, americani per rendersi conto che i supporter di Trump si stavano organizzando. Persino il Presidente invitava a presentarsi a Washington il 6 gennaio, sostenendo pochi giorni prima nel corso di un comizio che «non ci riprenderemo mai il paese con la debolezza». Lo stesso Presidente, assieme ai suoi figli, al suo avvocato ed ex sindaco di New York Rudy Giuliani e alcuni esponenti del Partito repubblicano, si rifiuta di riconoscere la validità della vittoria di Joe Biden. «È una frode, hanno rubato i voti» sostengono senza nessuna prova, rompendo quell’equilibrio della democrazia statunitense che si fonda sul riconoscere, una volta sconfitti, la legittimità dell’avversario.
Gli Stati Uniti hanno costruito la loro immagine, la loro forza, la loro potenza su un assunto: il consenso, nonostante le anche forti differenze ideologiche e partitiche.
La rottura del consenso ha vecchie radici, perlomeno negli anni Sessanta con la candidatura di Barry Goldwater, se non negli anni Cinquanta con il maccartismo. E poi ancora: la contestazione giovanile (e non) degli anni Sessanta culminata nei movimenti del 1968, la liberalizzazione dell’aborto, i diritti delle donne, la lotta per i diritti civili degli afroamericani; l’atteggiamento considerato troppo permissivo della distensione, secondo alcuni esponenti repubblicani e democratici. Quella che si sviluppò negli anni Settanta – anni in cui anche negli Stati Uniti ci furono episodi di terrorismo, in cui la polizia accentuò la militarizzazione, anni di disillusione sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo a causa del Vietnam e della crisi petrolifera ma anche del Watergate – fu una reazione bianca, estremamente conservatrice e maschilista alle richieste di cambiamento e parità che da più parti della società arrivavano. Una reazione che trovò terreno fertile nello sviluppo della Christian right, la destra religiosa che mette al centro della sua agenda politica una lettura estremamente conservatrice della società e della Bibbia, la quale confluì nella coalizione reaganiana – coalizione che ha permesso l’elezione a presidente di Ronald Reagan per ben due volte (1980 e 1984). La fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta segnò, inoltre, la fine del modello socio-economico nato dal New Deal del Presidente democratico Franklin Delano Roosevelt: il Welfare Capitalism. Un nuovo paradigma economico e sociale prendeva forma all’interno di una compagine politica, quella reaganiana, che raccoglieva in sé elementi differenti tra di loro, come chi era contrario al globalismo e chi invece lo sosteneva, ma che comunque trovandosi sotto l’ala protettiva del presidente prosperavano, si organizzavano e crescevano. Gli anni Novanta sono da molti considerati anni di consenso: la fine della Guerra Fredda, la fine della storia. Sono anni in cui le questioni irrisolte dei decenni precedenti iniziano ad affacciarsi con maggior preponderanza: la questione del fondamentalismo islamico e del terrorismo, la critica alla globalizzazione, all’apertura verso il mondo degli Stati Uniti in favore di un ritorno a quello che oggi definiremo «America first». Ma anche una visione polticio-religiosa, il cristianismo, che si contrapponeva ai «successi» liberal: la parità tra uomo e donna, i diritti civili per gli afroamericani, l’immigrazione e via dicendo. Gli anni Novanta sono infatti caratterizzati dal crescente fenomeno del militia movement, milizie armate di estrema destra che propugnavano e propugnano tutt’ora un conservatorismo culturale e sociale, maggiore autonomia dalla capitale, criticano la globalizzazione e si ritengono i veri depositari dell’eredità della Guerra d’indipendenza. Seguirono poi le elezioni del 2000 e la lunga polemica sul conteggio dei voti in Florida tra George W. Bush e Al Gore, fino ad arrivare nel 2008 a delle primarie democratiche in cui a sfidarsi sono una donna, Hillary Clinton, e un uomo di colore, Barack Obama, che diverrà il primo presidente afroamericano. Tutto questo scatena una reazione maggiore di quei segmenti di elettorato fino ad ora descritti che trovano nel web e nei social un mezzo che facilita lo scambio di opinioni, notizie, ma che soprattutto fornisce loro un luogo di aggregazione. Nel 2009 nasce il Tea Party Movement, espressione di un Partito repubblicano che fatica a rimanere sobrio e istituzionale e a contenere le spinte estremiste, razziste e complottiste. Iniziano a diffondersi maggiormente le fake news, come quella secondo cui Obama non sarebbe nato negli Stati Uniti, di cui Donald Trump è stato un sostenitore; o quella del pizzagate, che si lega alle teorie di Qanon, secondo cui una pizzeria di Washington era una copertura per il traffico pedofilo protetto dai democratici. L’elezione nel 2016 di Donald Trump è figlia ed estremizzazione di tutto questo. Nell’arco dei quattro anni di mandato Trump ha preso in ostaggio il Partito repubblicano, forte del fatto che il nocciolo duro del suo elettorato, sondaggi alla mano, non ha mai cessato di sostenerlo. E così, il Grand Old Party è divenuto preda di politici che realmente credono nell’estremismo che professano e in politici che per convenienza vi si appoggiano. Un partito che ha come guida un Presidente che non condanna il razzismo e gli episodi di violenza nei confronti degli afroamericani; accusato di molestie sessuali e che sceglie come giudice alla Corte Suprema, Brett Kavanaugh, un uomo accusato anche lui di molestie; che usa la sua posizione a fini personali sottomettendo le esigenze di politica estera ai sondaggi di gradimento e alle elezioni di mid-term.
Già nel 2016 il consenso traballava, forse si era già rotto, e l’America iniziava a bruciare.
Torniamo così al 6 gennaio 2021: ormai la miccia è accesa e a farlo è stato Donald Trump. Un fatto prevedibile e non accidentale: le minaccie di Trump di questi anni sono sempre state una cosa seria. Le intenzioni dei manifestanti, alcuni dei quali armati, sono tutt’ora poco chiare: volevano impiccare il Vicepresidente? Volevano fare un colpo di Stato? Trump fino a quando li avrebbe sostenuti? Solo dopo alcune ore, infatti, e dopo che Biden lo ha con fermezza invitato ad intervenire, Trump in un breve messaggio ha richiamato alla calma. C’erano contatti tra l’estrema destra e le forze armate e/o le forze di polizia? In alcune zone del Campidoglio la polizia ha lasciato passare i manifestanti e alcuni membri delle forze dell’ordine si sono scattati dei selfie con gli eversivi. Secondo alcune ricostruzioni non potevano fare altrimenti perché sopraffatti, secondo altre forse c’era un accordo. E come classificare il fatto che alcuni degli assalitori sono ex membri delle forze di polizia e dell’esercito? Una situazione caotica, la cui chiarezza diminuisce ancora se pensiamo alla gestione dell’emergenza: sia il capo della polizia di Washington che la sindaca Bowser chiedono l’intervento di altre forze dell’ordine e della Guardia Nazionale. Di nuovo arrivano risposte dalla Casa Bianca. Solo dopo alcune ore la richiesta viene autorizzata, ma non dal Presidente Trump, come secondo la legge dovrebbe essere, ma dal Vicepresidente Pence. Che cosa è successo? Perché è stato il Vicepresidente? Un caos che perdura tutt’oggi: Trump invocherà per sé il perdono presidenziale, ammesso che possa farlo (la cosa è dibattuta)? Trump verrà perseguito dai tribunali per aver avuto un ruolo nelle violenze del 6 gennaio? Verrà invocato il 25esimo emendamento per rimuoverlo dall’ufficio oppure i democratici procederanno con l’impeachment? Considerando, inoltre, che la prima data disponibile per il Senato è il 19 gennaio, poche ore prima dell’insediamento di Biden: sarebbe la prima volta che verrebbe tentata la procedura con un Presidente che, nel corso del processo, non sarebbe più nel suo ufficio.
Il Campidoglio è il simbolo sacro della democrazia americana, il punto di riferimento per molte democrazie nel mondo. L’attacco indebolisce la posizione degli Stati Uniti nel mondo e delle democrazie, rafforzando i competitor come la Cina e la Russia, ma anche gli illiberali e i dittatori offrendo un esempio che potrebbe replicarsi altrove. Servirà tempo per ricostruire la fiducia e la postura internazionale degli Stati Uniti, il consenso che avevano creato.
Nella teoria politica si sostiene che una democrazia è fragile e sempre in pericolo: il 6 gennaio ne abbiamo avuto dimostrazione.
Non sappiamo ancora se gli Stati Uniti reggeranno il colpo, anche se al momento sembra che la democrazia americana ce la stia facendo. Pare, insomma, che l’incendio sia domato. Ancora, però, devono essere individuati i piccoli piromani aizzati da Donald Trump, cercando di risolvere la crisi in seno alle istituzioni in modo da rafforzarne la legittimità. Servirà del tempo prima che dalle ceneri l’albero della democrazia spunti forse più forte.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.