In occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio diverse persone hanno paragonato i crimini di oggi – come i campi di detenzione per migranti in Libia o le vessazioni subite dai migranti nella rotta balcanica – all’Olocausto. Per quanto sia giusto sottolineare i crimini e le ingiustizie del tempo presente sovrapporle alla Shoah non è corretto. Ricordare è necessario ed essenziale perché un genocidio è sempre possibile, anche perché l’odio verso determinati gruppi etnici e/o religiosi perdura ancora oggi. Ma se ogni ingiustizia non viene chiamata con il suo nome e non viene definita per quel che è scade nel riduzionismo, nello stereotipo e nel pregiudizio, contribuendo così ad aiutare ciò che si vorrebbe contrastare.
Un genocidio è la sistematica distruzione di una popolazione, di un gruppo etnico o di una comunità religiosa. Pertanto il termine può essere applicato solo a quei casi in cui c’è la volontà di eliminare, in maniera organizzata e sistematica, un gruppo di persone. Altrimenti è più corretto parlare di «crimini contro l’umanità» categoria in cui rientra anche il genocidio, ma che annovera diverse fattispecie giuridiche finalizzate alla precisa identificazione del crimine, così da poterne poi indagare le cause. L’indagine di esse è, infatti, la premessa necessaria per ogni «mai più» poiché essa consente di individuare i fenomeni sociali, culturali, economici e politici che hanno generato l’odio e/o la forma criminosa.
La sovrapposizione tra Shoah e fenomeni differenti crea anche altri problemi. Innanzitutto paragonare può essere legittimo se, effettivamente, si tratta della stessa fattispecie criminosa, ma ciò non deve portare a sovrapporre: il rischio è di perdere la profondità storica del fenomeno, distogliendo l’attenzione dalle sue origini culturali e dalla sua evoluzione, creando l’illusione di un tempo sempre al presente. Inoltre la premessa discorsiva de «l’Olocausto è successo ma…», cioè il discorso secondo cui «la Shoah è accaduta, ma oggi abbiamo altro» lascia intendere una relativizzazione del fenomeno – un terzo degli europei è di questo parere. Detto in altri termini si ritiene il genocidio nazista un fenomeno passato, utile per creare consapevolezza, ma su cui oggi non è possibile appiattirsi perché c’è altro (se non ben di peggio a seconda dell’interlocutore). L’unicità che sottrae il fenomeno dalla storia, rendendolo così irripetibile, è la premessa per il riduzionismo del crimine che fa il gioco dell’odio verso gli ebrei o altri gruppi etnici o altre comunità religiose e culturali – proprio ciò che la Giornata della memoria vorrebbe evitare. È ciò che consente all’ingiustizia, alla persecuzione, al male di perpetrarsi perché tra il non dire (e il dire sbagliando) e il negare il passo è breve poiché il male si fonda anche sull’incomprensione. Allarmante, in tal senso, l’aumento generale in tutta Europa dell’antisemitismo, sia a livello retorico che di atti, e di chi nega che l’Olocausto sia mai esistito. Un esempio concreto: il 28 marzo 2018 Mirelle Knoll, un’anziana signora ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio, è stata bruciata viva dagli antisemiti di destra in Francia.
Non dobbiamo dimenticare che le caratteristiche essenziali della persecuzione degli ebrei che portarono al nazismo sono culturali e storiche, risalgono in un certo modo alle persecuzioni dell’antica Roma – alcuni storici sostengono che i romani siano andati molto vicini a compiere un genocidio in Galilea ai danni degli ebrei. Una persecuzione che si è perpetrata in diverse forme nel corso dei secoli: dal Medioevo all’età contemporanea. Uno strato culturale che ha permeato le società europee generando le premesse per l’instaurazione del nazismo in Germania e il suo diffondersi in Europa – e oltre visto che il nazi-fascismo e l’antisemitismo si sono poi diffusi in tutto il mondo. È questo un aspetto essenziale da comprendere e analizzare ed è qui, infatti, che parte della Giornata della memoria concentra la sua attenzione: sul comprendere le radici culturali, rispettando la profondità storica che consente di cogliere lo spessore temporale del radicarsi dell’odio, dei suoi stereotipi e pregiudizi, delle sue pratiche. Ciò consente di cogliere quegli elementi che caratterizzavano il nazismo e che, effettivamente, perdurano tutt’oggi. Innanzitutto il nichilismo, la negazione di ogni differenza in nome del suprematismo della propria posizione o della propria presunta «razza» – la scienza ha oggi smentito l’esistenza delle razze. È, questa, la premessa essenziale per ogni discorso fondato sull’unicità e la giustezza del proprio messaggio che porta a ritenere l’avversario non più un legittimo «concorrente» nella democrazia, ma una minaccia esistenziale per la Nazione, qualcosa da estirpare perché estraneo, diverso: non umano. Al giorno d’oggi qualcosa di simile sono i suprematisti bianchi e alcuni dei supporter di Trump che hanno preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio, le cui posizioni accolgono teorie complottiste, false notizie e credenze e il messianismo: elementi che già erano presenti nel nazismo.
Come ha sottolineato la studiosa Donatella Di Cesare, il nazismo fu: «l’epilogo della civiltà industriale e tecnologica, di quella organizzazione burocratica del mondo in cui viene profilandosi il dominio totalitario». Nei campi di sterminio venne messo in atto un «massacro industrializzato», scriveva Hannah Arendt, basato su dei principi che miravano a rendere più efficiente il risultato (massimizzandolo) e spersonalizzando lo sterminio. La burocrazia e il ritenere gli ebrei come «non umani» creavano una linea di demarcazione tra vittime e carnefici, facendo ritenere questi ultimi nel giusto. Da ciò scaturiva una cornice di senso e di legittimità delle azioni (cornice relativa, che si riferisce solamente alla propaganda nazista) che aveva le sue premesse nell’assenza di pensiero: il non riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni – il disinteresse – e il non mettersi nei panni degli altri – l’empatia. Dall’altro i principi di organizzazione del lavoro rendevano possibile lo sterminio su una scala di massa. In tal senso, la differenza tra campi di lavoro e di sterminio, sovente confusi, è qualitativa – ed è anche per questo che molte delle sovrapposizioni che vengono fatte sulla Shoah sono fuorvianti. I campi di lavoro si fondavano sullo sfruttamento schiavistico: il loro cardine era il lavoro, anche se la morte dei prigionieri era un’eventualità. «Nei campi di sterminio la morte era il cardine e la finalità immediata», difatti il tasso di mortalità in questi campi era del 99% a differenza dei campi di lavoro come i gulag dove era del 20%. La ragione di ciò è anche quello che contraddistingue lo sterminio degli ebrei perpetrato dal regime nazista: il progetto di rimodellamento dell’umanità in base a dei presupposti razziali – una differenza, quindi, rispetto ai genocidi coloniali: questi erano finalizzati all’acquisizione di territori e ricchezze e alla sottomissione di popoli ritenuti inferiori, si pensi a quanto accaduto nel Congo di re Leopoldo II del Belgio nel secondo Ottocento. Altra caratteristica è, come nota sempre Di Cesare, che: «non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trova nell’uso del gas un cambiamento non di grado, ma di qualità». Ed è proprio l’industrializzazione della morte teorizzata dal nazismo che consentiva di parlare di rimodellamento biologico dell’umanità a livello planetario.
Ma allora perché ricordare? Il giorno della memoria serve a creare consapevolezza che quanto è successo in passato può accadere di nuovo. Ma che cosa, di preciso, può accadere nuovamente?
Il nazismo è stato un fenomeno storico circoscritto al suo tempo. Ciononostante vi sono delle caratteristiche che perdurano ai giorni nostri in determinate formazioni politiche e/o movimentistiche, le quali inoltre assumono nelle loro finalità gli obiettivi di questo regime totalitario come ad esempio lo sterminio degli ebrei. Pertanto è possibile che anche al giorno d’oggi un regime dittatoriale o totalitario si instauri in un paese sfruttando l’odio, lo stereotipo, il pregiudizio, le false notizie: gli stessi elementi su cui nazismo e fascismo hanno costruito i loro regimi. Elementi cui bisogna aggiungere anche la necessità di definire un «capro espiatorio»: non solo gli ebrei lo sono stai per secoli, ma la pandemia di coranavirus ha rafforzato l’idea di una cospirazione ebraica alla radice della pandemia. È per questo che si parla di neo-nazismo: perché nella storia può accadere talvolta che muti la forma ma permanga la sostanza essenziale di certi fenomeni che, in queste caratteristiche essenziali, tendono a reimporsi. Lo fanno perché c’è chi raccoglie quelle essenzialità, le fa proprie nelle loro caratteristiche decisive e trasferibili da un’epoca ad un’altra, riadattandole ai tempi correnti. C’è dell’altro: il nazismo si è sviluppato in seno a delle istituzioni, ad una concezione dello Stato, della politica e dell’economia che sono, nelle loro caratteristiche fondamentali e nei loro elementi costitutivi, tutt’oggi presenti. Si tratta, inoltre, di far capire attraverso l’esempio cosa possa essere il male, attuando così un’azione di «recupero» di alcuni individui e un’azione di prevenzione.
La Giornata della memoria è, dunque, un invito allo studio, all’informazione e all’esercizio della critica, alla tolleranza e alla consapevolezza necessarie ad analizzare la realtà senza pregiudizi e senza odio, quindi ad indicare ogni crimine con la sua giusta specificità.
Immagine di copertina a cura dell’autore (Auschwitz, Polonia, 2011).
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.