Il conferimento dell’incarico di vagliare la possibilità di formare un governo all’ex Presidente della BCE Mario Draghi da parte del Presidente della Repubblica Mattarella è stato motivato con la natura emergenziale, economica e pandemica, in cui ci troviamo. Mattarella ha sottolineato, inoltre, che dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi 4 mesi per la formazione di un nuovo governo, nel 2018 5 mesi: la lentezza della formazione di un nuovo governo avrebbe quindi aggravato la situazione.

Questo non vuol essere un articolo a sostegno o di critica alla figura di Mario Draghi come Presidente del Consiglio né sulla liceità delle scelte di questo o altri Presidenti della Repubblica: la Costituzione stabilisce che è prerogativa del Presidente nominare il capo dell’esecutivo, scegliendo anche al di fuori della politica. L’intento è, piuttosto, quello di sottolineare come in Italia l’abuso della concezione di situazione «emergenziale», quando cioè la stabilità e la governabilità vengono meno in un contesto critico, abbia fatto sì che l’incarico a Draghi rappresenti una sorta di «normalità», in un contesto che emergenziale lo è veramente.

Prima degli anni Novanta, quando in Italia nascono i primi governi tecnici – quei governi presieduti e/o formati da soggetti esperti di un settore, generalmente quello economico, e che sono estranei alla politica -i governi di scopo e/o istituzionali o del presidente furono due: Giuseppe Pella, esponente della Democrazia cristiana ed esperto di economia, nel 1953 formò un governo «d’affari» che ebbe come scopo principale la legge di Bilancio. Il secondo fu il governo (di scopo) del 1987 guidato da Amintore Fanfani, esponente della Dc: il compito era quello di portare il Paese elle elezioni dopo le dimissioni del leader socialista Bettino Craxi; nella compagine vi erano diversi tecnici. Arriviamo quindi al 1993, quando Oscar Luigi Scalfaro conferì l’incarico di formare un governo, di fatto tecnico, a Carlo Azeglio Ciampi, futuro Presidente della Repubblica e allora governatore della Banca d’Italia. Fu l’ultimo governo della cosiddetta Prima Repubblica e venne formato dopo le dimissioni di Giuliano Amato. Ciampi ebbe il compito di approvare una nuova legge elettorale, dando al contempo la stabilità e le riforme necessarie per il contesto economico. Seguirono le elezioni del 1994 che portarono alla vittoria di Forza Italia guidata da Silvio Berlusconi: il governo durò solo 10 mesi e nel 1995 venne quindi chiamato un nuovo tecnico, Lamberto Dini, ex direttore generale della Banca d’Italia e all’epoca ministro del Bilancio. Dini dette vita ad un governo interamente composto da tecnici (dei 19 ministri di Ciampi, 9 erano politici) ed ebbe come obiettivi: una manovra economica, la riforma delle pensioni, la legge elettorale per le regioni e la riforma dell’informazione. Per trovare un nuovo governo tecnico è necessario arrivare al 2011, quando il governo Berlusconi cadde per l’impennata dello Spread e per il contenzioso con l’Unione Europea sui conti italiani – anche questo un contesto effettivamente di emergenza. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affidò l’incarico di formare il governo a Mario Monti, ex docente dell’Università Bocconi, accademico ed ex Commissario europeo. I ministri e i sottosegretari erano per la quasi totalità tecnici.

Non sappiamo ancora se il governo Draghi riuscirà ad insediarsi e se sarà un governo tecnico: ciò che è chiaro è che il suo compito sarà diverso da quello dei predecessori poiché dovrà gestire il piano vaccinale contro il COVID – 19 e dovrà stilare il documento necessario per accedere al Recovery Plan. Ben diverso da Monti che doveva evitare il crollo del sistema di credito e abbassare lo spread. Ma una cosa in comune, perlomeno i governi tecnici formatisi dagli anni Novanta in poi, la hanno: il ricorso alla nozione di «emergenziale» – anche il Conte II, nato nel 2019 mentre il paese rischiava di non avere una legge di bilancio, aveva come obiettivo garantire la stabilità e la governabilità.

Il ricorso continuo alla nozione di «emergenza» per giustificare l’incapacità della politica italiana di produrre accordi trasversali e/o di sintesi in situazioni di grave difficoltà che richiederebbero unità d’azione non è altro che la sconfitta della politica a fronte di una classe dirigente maldestra se non incompetente. È un problema che riguarda l’incapacità dei governi di terminare le legislature, cioè di rimanere in carica per la durata dei cinque anni previsti. È, questo, effettivamente un grave problema di stabilità del sistema politico italiano: un problema strutturale visto che riguarda l’intero arco di storia italiana, sin dall’Unità.

Le soluzioni che vengono proposte sono all’incirca due: la formazione di governi che hanno al loro interno esponenti sia di partiti di destra che di sinistra, le cosiddette «coalizioni Ursula» – venne proposta nel 2019 auspicando allora la formazione di un governo PD – M5S e Forza Italia; oppure il conferimento dell’incarico ai «tecnici». In ogni caso l’economia stabilisce il proprio primato sulla politica: siamo consapevoli che se l’economia italiana dovesse fallire a rimetterci sarebbero le fasce di reddito medio e basso (non certo le alte), ma la politica dovrebbe avere la forza di contrastare queste minacce senza dover sopperire essa stessa al rischio di una crisi economica e sociale.

Le coalizioni Ursula, su cui i governi della Cancelliera Angela Merkel hanno costruito parte della propria legittimazione, rischiano sul lungo periodo di sublimare le differenze politiche in nome dell’assunto economico. Detto in altre parole le differenze tra i partiti di destra e sinistra sfumano così che difficilmente i partiti proporranno soluzioni alternative e realmente coerenti con il loro posizionamento, dando così forza all’assunto che il sistema per come è vada bene.

Il ricorso ai tecnici si basa sull’idea che gli esperti, in quanto figure estranee alla politica, siano super partes, quindi in grado di mettere d’accordo destra e sinistra attraverso un programma che ha come obiettivo il bene del paese. Alla base vi è comunque l’assunto che si creerà una coalizione composita ed eterogenea che produce le medesime criticità del sistema Ursula. Essendo tecnici, inoltre, dovrebbero garantire un apporto specialistico difficilmente discutibile viste le accademiche, dimentichi però che la politica è conciliazione e mediazione. Non sempre, infatti, ciò che è giusto a livello teorico può trovare equa e giusta attuazione nel campo, per l’appunto, politico perché i modelli in questione tendono spesso ad essere assolutizzati e non mediati. Sul lungo periodo, inoltre, l’idea che si possa affidare la formazione di un governo a dei tecnici produce dei vulnus: non vi è più una cornice di “obbligo” in cui le forze politiche devono necessariamente trovare una soluzione politica, poiché questa è rappresentata dal tecnico che viene considerato l’unico in grado, in nome della sua specializzazione, di individuare una soluzione. La politica non è specializzazione ed adotta lo sguardo opposto al tecnico, cioè non si concentra sul particolare, ma sul globale per produrre delle sintesi che armonizzino la società. È anche in tal senso che il ricorso ai tecnici è una sconfitta della politica. Con ciò non si vuole sminuire l’importanza degli esperti, che rimangono ovviamente essenziali al politico proprio perché egli non è l’esperto, ma il sintetizzatore.

Le ragioni che vengono addotte per ricorrere a soluzioni di crisi generate spesso da interessi particolaristici e di partito, anche la dove i presupposti critici dell’azione di governo potessero essere stati condivisibili, riguardano principalmente la necessità di governabilità e di stabilità per favorire la ripresa ed il benessere economico. Motivazioni che, essendo così spesso nominate, segnalano il fallimento dei precedenti tentativi nel risollevare le sorti economiche di un paese che dell’instabilità e dell’interesse particolaristico ha fatto le sue caratteristiche principali. In questo modo  il ricorso alla nozione di emergenza ha reso le situazioni di reale emergenza la normalità, delegittimando così la concreta possibilità di affidare, in momenti realmente cruciali, a figure terze la formazione del governo. Ma se la politica fosse stata all’altezza del suo compito probabilmente non avremo mai avuto bisogno di governi tecnici.

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