“Di Vinegia alli xxx di Marzo MCCCXIV
L’humil servo vostro Dante Alighieri Fiorentino”
Così termina la lettera che Dante Alighieri indirizzò al signore di Ravenna Guido Novello da Polenta (1316-1322) alla conclusione dell’ambasciata a Venezia. Perché il Poeta vi si recò? Quale motivo lo spinse a scrivere al Polentano? Ma soprattutto, come è possibile che l’epistola, datata 1314, sia indirizzata al Signore ravennate, quando egli lo divenne solamente due anni più tardi? Risponderemo a tutto, ma prima è necessario capire il contesto. Dunque, torniamo indietro di cento anni.
Al tempo Venezia non possedeva l’ampio dominio terrestre che la distinguerà in età moderna, ma il suo potere era comunque notevole, capace d’influenzare la politica delle vicine, ad esempio tramite la minaccia di aumento del costo del sale – merce indispensabile nella vita di tutti i giorni – oppure il suo arresto o diminuzione nelle esportazioni. Con la vendita e lo scambio di questo cristallo salato, l’Urbs sancti Marci otteneva i materiali necessari a mantenere ed ampliare la sua flotta, per questo motivo, quando uno dei siti nella sua area operativa provava a costruire delle saline o minacciava di farlo, la Serenissima si affrettava a mobilitare l’esercito. Tre dicembre 1234 è la datatio di uno dei tanti patti sottoscritti da Venezia sulla questione, in questo caso con Ravenna, il primo di cui siamo a conoscenza fra le due ed al quale ne seguirono molti altri, dove, tra i temi dominanti, troviamo il sale e le saline di Cervia, il cui prodotto spettava in parte all’arcivescovo ed al Comune di Ravenna[1]. Evito di elencare i molti dettagli e cavilli che adornano tali diplomi, limitandomi a dire che, – sebbene nei documenti del 1321 e ’22 non si accenni alle cause – fra contrabbandi, trasgressioni, parte degli accordi non rispettati, sequestri di navi, persone e merci, la partecipazione di Ravenna e Cervia alla guerra ferrarino-veneziana (dalla parte della Romagnola) ed i tentativi di ribellioni al controllo della Serenissima, la situazione degenerò a tal punto che si arrivò alla minaccia – mai andata oltre – di una guerra (1319-1322).
La domanda sorge spontanea: come finì Dante in tutto questo marasma politico? L’esilio aveva costretto il Poeta a viaggiare per quel puzzle comunale e signorile che era l’Italia dell’epoca. Il primo rifugio – o almeno quello che l’Alighieri vuole far passare – fu Verona, come indicato nella Commedia tramite le parole avveniristiche di Cacciaguida:
Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n su la scala porta il santo uccello[2]
«Lo primo […] refugio», avvenuto tra il 1303 ed il 1304, non ci è molto utile, è infatti il secondo «ostello» veronese (1316-1318), quello sotto la protezione di Cangrande, che ci deve interessare maggiormente, visto il ruolo decisivo che la Verona del secondo decennio potrebbe aver avuto dell’ambasceria del 1321, poiché non solo Dante la utilizzò come base sicura per le sue (supposte) esplorazioni e l’acculturarsi ed informarsi sulle vicende politiche e geografiche circostanti, ma è possibile che fu proprio la lunga mano scaligera a spingere il Fiorentino a Venezia. Dopo aver risieduto per anni a corte, Dante la lasciò per dirigersi verso la Ravenna di Guido Novello da Polenta; perché? È una domanda che continua a dividere dantisti e biografi, soprattutto la parte riguardante la data d’arrivo, collocata recentemente ad un periodo compreso tra la seconda metà del ‘18 e la prima del ‘19. In un saggio del 1971 Augusto Torre[3] avanza l’idea secondo cui fu Cangrande ad inviare l’Alighieri a Ravenna, al fine di incoraggiare e rafforzare la resistenza di Guido Novello contro Venezia nella «guerra» per le saline di Cervia. Ciò sarebbe dimostrato – sempre secondo Torre – dall’interesse scaligero per le relazioni tra il Comune e la Repubblica rivelato dalla partecipazione di Cangrande alla pace del 1310 in qualità di mediatore e nel suo legame mai interrotto con Dante, comprovato dal fatto che il Poeta era solito inviargli i canti della Commedia terminati, dalla (presunta) dedica del Paradiso e la presenza del Signore all’esposizione nella Chiesa di sant’Elena a Verona della Questio de aqua et terra (gennaio 1320).

Il 17 agosto 1321 il doge Giovanni Soranzo (1312-1328) incaricò Nicola di Marsilio di recarsi presso il signore di Forlì (vi giunse fra il 17 ed il 22), Francesco (I, detto «Cecco») Ordelaffi (1315-1331), perché accettasse a nome della Repubblica l’offerta di alleanza contro Ravenna che il Forlivese gli aveva a sua volta presentato poco antecedentemente (sospetto tra il 12 e il 17) e lo esortasse a mobilitare immediatamente le truppe. Da lì, poi, il Messo avrebbe dovuto proseguire verso Rimini, Cesena, Faenza ed Imola per sollecitarle a non andare in aiuto di Ravenna e dei suoi alleati e non far transitare per i loro territori gli eserciti nemici. Davanti ai signori degli organi di queste città, l’Inviato si sarebbe impegnato a spiegare la legittimità della guerra, data dall’assalto ravennate ad alcune navi della Serenissima[4], l’uccisione del capitano e l’aver ferito altri uomini; l’atto, di per sé, non rappresentava nulla di inusuale, anzi gli abbordaggi delle città adriatiche alle navi veneziane erano abbastanza frequenti. Guido Novello cercò di rispondere all’assemblaggio rivale chiamando in gioco l’autorità de iure di Ravenna, papa Giovanni XXII (1316-1334), che dalla lontana «cattività avignonese» provvide ad esortare il Doge a non marciare contro i territori del Patrimonium sancti Petri.
Naturalmente, questa non fu l’unica mossa del «Nobile cavaliere ravennate», egli mandò un’ambasciata – e forse più di una, come pensa Girolamo Rossi[5] – al Soranzo per cercare un accordo e tra coloro che si presentarono davanti ai capi della Repubblica vi fu anche Dante, sebbene in passato vi sia stato chi ne abbia dubitato (si vedano gli studi di Sheffer-Boichorst ed Imbriani)[6]. Ci si potrebbe domandare: il Poeta era mai stato nella Città lagunare? Come sempre non possiamo rispondere con certezza, ma, sfogliando la Commedia, è possibile incappare in un riferimento all’«Arzanà», l’Arsenale, orgoglio e simbolo della Città, disegnatoci con versi dettagliati che danno forma a uomini e strumenti:
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon ritoppa[7]
Suggerisco, comunque, di non considerare il passo come prova incontrovertibile di un precedente soggiorno a Venezia, poiché essa era famosa per la sua marina ed è improbabile che le genti del tempo non conoscessero l’Arsenale. Inoltre, mentre il Fiorentino si trovava a Verona (1303-1304 e 1316-1318), potrebbe aver visitato alcuni luoghi del Nord Italia – forse, afferma Ricci[8], lo fece perfino quando viveva a Ravenna (1318/1319-1321) –, un elenco[9] ancora avvolto da una nebbia d’incertezza, ma tra i luoghi citati dalle fonti non compare Venezia. È logico, dunque, pensare che non abbia mai visitato il Sito prima della famosa ambasciata e quanto scritto nella Divina non siano altro che informazioni ricavate da parole di terzi. Dopotutto, di richiami a luoghi geograficamente reali nella Commedia se ne fanno molti e non tutti furono visti dal Poeta.
Sulla mancata visita alla Serenissima, però, Giorgio Padoan avrebbe da ridire, non per nulla intitolò il suo scritto «Le ambascerie di Dante a Venezia»[10]. Riprendiamo in mano la lettera indirizzata a Guido Novello: la data dice “Di Vinegia xxx di Marzo MCCCXIV”, per l’Autore, a differenza degli studiosi che lo hanno preceduto, quanto dice è autentico e non un errore dovuto a mal copiature o falsificazioni sbagliate, convinto che Dante si sia realmente recato presso il doge Soranzo nella primavera del 1314 ed il motivo per cui l’Alighieri scrisse “rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge”, nonostante questi fosse stato eletto due anni prima, sarebbe spiegabile dalla scomunica pontificia seguita al tentativo di annettere Ferrara, con la conseguenza di trovarsi in guerra contro diversi Comuni e signorie italiche, compresa Ravenna. L’interdetto papale durò dall’aprile 1309 al febbraio 1313, impedendo così ai delegati di congratularsi con Giovanni Soranzo per la promozione. Appoggiandosi alle fonti più antiche (Boccaccio, Filippo Villani e Manetti), datari dell’arrivo in Romagna dell’Alighieri a dopo la morte (1313) di Enrico VII (1308-1313 rex romanorum, 1312-1313 imperatore) e all’immagine di un Guido Novello figura rilevante all’interno della Famiglia e presente nella politica della Ravenna retta da suo zio Lamberto (1297-1314[11])[12], il Padoan trova quindi le basi per affermare la teoria sulla veridicità dell’epistola.

Ogn’altra cosa m’haverei più tosto creduto vedere che quella che corporalmente ho trovato et veduto delle qualità di questo Eccelso Dominio:«Minuit praesentia famam», se ciò che io mi vaglia di quel passo di Vergilio. Io m’haveva fra me medesimo imaginato di dover trovare quei nobili et magnanimi Catoni, et quei rigidi Censori de’ depravati costumi, insomma tutto quello ch’essi, con habito pomposissimo simulando, voglion dar a credere all’Italia misera et afflitta di rappresentare in sé stessi: et forse che non si fanno chiamare «Rerum Dominos gentemque togatam»? Misera veramente et malcondotta plebe, da che tanto insolentemente oppressa, tanto vilmente signoreggiata, tanto rudelmente vessata sei da questi huomini nuovi, destruttori delle memorie antiche et autori di ingiustissime corruptele! Ma che vi dirò io, Signore, dell’ottusa et bestiale ignoranza di così et venerabili padri?
Io, per non defraudare così la grandezza vostra come l’autorità mia, giungendo alla presenza di così canuto et maturo Collegio, volsi fare l’uffitio mio et l’imbasciata vostra in quella lingua la quale, insieme con l’imperio della bella Ausonia, è tuttavia andata et andrà sempre declinando, credendo forse ritrovarla in questo estremo angulo sedere in maestà sua per andarsi poi divulgando insieme con lo stato loro per tutta l’Europa almeno. Ma oimè, che non altrimenti giunsi nuovo et incognito peregrino che se testé fussi giunto dall’estrema et occidentale Thile; anzi poteva io assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s’io fussi venuto dai favolosi Antipodi, che non fui ascoltato con la facondia romana in bocca; perché non sí tosto pronuntiai parte dell’esordio ch’io m’haveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge:«Lux orta est iusto et rectis corde laetitia», che mi fu mandato a dire che io cercassi d’alcuno interprete o che mutassi favella. Così, intra stordito et sdegnato, nescio qual più, pur cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu loco poco più familiare et domestica che la latina si fusse; onde, in cambio di portar loro allegrezza et diletto, seminai nel fertile campo della ignoranza di quell[i] abbondantissimo seme di maraviglia et di confusione. Et non è da maravigliarsi punto ch’essi il parlare italiano non intendino: ché, da progenitori Dalmati et Greci discesi, in questo gentilissimo terreno altro recato non hanno che pessimi et vituperosissimi costumi, insieme con il fango d’ogni sfrenata lascivia.
Per il che mi è parso darvi questo breve avviso della legatione che per vostra parte pur in parte ho esseguita, pregandovi che, quantunque ogni autorità di comandarmi habbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi: delle quali né voi riputatione, né io per alcun tempo consolatione alcuna spero. Fermerommi qua pochi giorni per pascere gl’occhi corporali, naturalmente ingordi delle novità et vaghezze di questo sito. Et poi mi trasferirò al dolcissimo porto dell’otio mio tanto benignamente abbracciato dalla real cortesia vostra.
Di Vinegia alli xxx di Marzo MCCCXIV
L’humil servo vostro Dante Alighieri Fiorentino
Eccola, nella forma completa, la citata lettera di Dante a Guido Novello da Polenta, portata la prima volta all’attenzione del mondo nel 1547 da Anton Francesco Doni, che la pubblicò in Prose antiche di Dante, Petrarchae et Boccaccio, et di molti altri nobili et virtuosi ingegni, nuovamente raccolte, ma sulla sua autenticità, ritenuta assoluta da Plumbre, Scheffer-Boichost e Padon[13], si è dubitato a lungo. L’idea era che fosse solo una macchinazione del Doni, costruita attingendo da Boccaccio e Filippo Villani, e, sebbene Giorgio Padoan abbia cercato di vedere lo scritto sotto un’altra luce, tutt’oggi rimane lo scetticismo.
I motivi dietro questi tentennamenti sono diversi: la già citata datazione (“xxx di Marzo MCCCXIV”), vista dai più prova eclatante di falsità (es. Zingarelli[14]), contrapposti ad una minoranza che pensa sia semplicemente un errore di copiatura; quel “Minuit praesentia famam” (paragrafo 1) attribuito a Virgilio, ma in realtà del De bello Gildonico di Claudiano e sembrerebbe assurdo pensare che proprio Dante abbia sbagliato un passo del suo «duca»; problemi di carattere storico-filologico con quei “Messer Guido da Polenta Signor di Ravenna” e “Serenissimo Doge” (par. 2), facenti storcere il naso agli storici della lingua, i quali li ritengono inadatti al XIV secolo; le acide parole con cui vengono descritti i veneziani, accusati perfino di non capire l’«italiano» perché discendenti di stranieri (par. 2: “Et non è da maravigliarsi punto ch’essi il parlare italiano non intendino: ché, da progenitori Dalmati et Greci discesi”); l’incapacità dei rappresentanti della Repubblica di non intendere il latino, mezzo di comunicazione nella politica e nelle ambasciate, utilizzata ovunque nell’Europa cristiana (par. 2: “volsi fare l’uffitio mio et l’imbasciata vostra in quella lingua la quale, insieme con l’imperio della bella Ausonia, è tuttavia andata et andrà sempre declinando, […]. Ma oimè, che non altrimenti giunsi nuovo et incognito peregrino che se testé fussi giunto dall’estrema et occidentale Thile; anzi poteva io assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s’io fussi venuto dai favolosi Antipodi, che non fui ascoltato con la facondia romana in bocca; perché non sí tosto pronuntiai parte dell’esordio ch’io m’haveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge:«Lux orta est iusto et rectis corde laetitia», che mi fu mandato a dire che io cercassi d’alcuno interprete o che mutassi favella.”); ed infine la lingua del documento in sé, il volgare, pare strano, infatti, che il Poeta si sia rivolto al Signore di Ravenna, ad un’autorità, non in latino, probabilmente conosciuto dal colto Guido Novello. Contro tali accuse si schiera Giorgio Padoan[15], il quale tenta di riabilitare la veridicità di data e modo di esprimersi – a suo parere tipicamente dantesco – affermando che in origine l’epistola era in latino e quanto trasmessoci dal Doni è una copia tradotta in un volgare quattro-cinquecentesco (idea già avuta dal Fontanini[16]).

Al di là delle numerose interpretazioni e lavori, il testo ci racconta che tra i motivi del fallimento dell’ambasciata vi fu il non aver permesso a Dante di poter parlare, o perlomeno non gli fu consentito farlo in latino e, probabilmente non avvezzo alla lingua veneta, si vide costretto all’utilizzo del volgare fiorentino, mal capibile, se non incomprensibile, ai veneziani della pre-«riforma bembiana» (par. 2: “Così, intra stordito et sdegnato, nescio qual più, pur cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu loco poco più familiare et domestica che la latina si fusse; onde, in cambio di portar loro allegrezza et diletto, seminai nel fertile campo della ignoranza di quell[i] abbondantissimo seme di maraviglia et di confusione.”). Perché mai il Doge e/o il Senato – ipotizzando la veridicità del racconto – non permisero all’Alighieri di parlare in latino? Se avessero voluto respingere i missi del Signore di Ravenna, perché non proibirono loro udienza fin dall’inizio? Teniamo presente che il doge era la suprema autorità (simbolica) a Venezia ed arrivare a lui non doveva essere cosa di poca fatica e lo stesso, sicuramente, valeva per il Senato. Forse il Soranzo ed i senatori non sapevano della sua presenza dantesca nell’ambasciata e/o del suo ruolo di portavoce? Ne dubito, era impossibile arrivare al cospetto di uomini del genere prima che l’avessero saputo. Per Filippo Villani[17] il gesto nacque dal timor dell’oratoria del Fiorentino, talmente aulica da poter mutare i pensieri delle genti; quindi il Cronista ci starebbe dicendo che alcuni tra gli uomini più potenti del Continente ebbero paura della dialettica del Poeta? Lo credo ancor più improbabile, dopotutto costoro – sicuramente colti – erano a capo di un influente – mi si conceda il termine – «Stato», vedo difficile immaginarli incapaci di tener testa ad un abile oratore; per questo motivo, ritengo apologetiche le parole del Villani. Più credibile è la spiegazione data da Padoan[18]: il duro gesto veneziano fu volto a intimorire e spingere i ravennati ad accettare le condizioni dei lagunari, un atteggiamento più che comprensibile se si va a conoscere – sempre attraverso Padoan – il doge Giovanni Soranzo, uomo imponente d’aspetto ed autorevole nei modi, dedito alla politica e la guerra, capace di far tornare sotto il vessillo di San Marco le città dalmate ribelli con il solo personale ascendente.
In ogni caso, l’ambasciata non andò a buon fine, così l’Alighieri, pregato infine Guido Novello di non inviarlo più per simili imprese, si avviò, dopo alcuni giorni, verso la strada di casa (par. 3: “pregandovi che, quantunque ogni autorità di comandarmi habbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi: delle quali né voi riputatione, né io per alcun tempo consolatione alcuna spero. Fermerommi qua pochi giorni per pascere gl’occhi corporali, naturalmente ingordi delle novità et vaghezze di questo sito. Et poi mi trasferirò al dolcissimo porto dell’otio mio tanto benignamente abbracciato dalla real cortesia vostra.”). Mesi avanti, dove il Fiorentino aveva fallito, altri riuscirono nell’impresa di strappare la pace (4 maggio 1322).
Le uniche certezze sul viaggio di ritorno del Poeta sono che riuscì a rivedere Ravenna e lì morì in tempi non troppo distanti, ma sul come arrivò in Città e le tempistiche esistono solo ipotesi. Filippo Villani[19] scrive che, ad un certo momento del soggiorno, Dante chiese di ripartire a causa di problemi di salute, ma l’appello per un viaggio marittimo fu declinato dai veneziani, convinti che se si fosse imbarcato avrebbe convinto il capitano a rinunciare alla guerra, così fu costretto a fare la tratta terrestre. Quello trasmessoci dal Cronista è, ovviamente, volto ancora ad esaltare la figura del concittadino, ma potrebbero esserci tracce di verità, dopotutto fu un personaggio legato alla politica, amico e corrispondente del cancelliere Coluccio Salutati e co-autore della Nuova Cronica dello zio Giovanni e del padre Matteo, quindi è possibile che abbia ricavato informazioni entrando in contatto con fonti e persone inaccessibili ad altri. Innanzitutto, perché Venezia avrebbe proibito a Dante d’imbarcarsi? Stando al Villani egli era malato, dov’era la pietà cristiana della Repubblica? Secondo Ricci[20] il governo lagunare non aveva alcuna ragione d’impedire al Fiorentino di veleggiare verso casa, anzi, forse furono proprio l’Alighieri e gli altri inviati a preferire il viaggio terrestre, poiché l’Adriatico era un mare troppo pericoloso, caratterizzato da burrasche, tempeste e – aggiunge Filippo Villani[21], ma non è ancora stato comprovato – dagli scontri navali tra i due schieramenti. Il rientro (come l’andata), dunque, per Ricci avvenne via terra, lungo un viaggio di tre giorni.
Giunto a Ravenna, ormai spossato, Dante pose fine alla sua esistenza. Sulla dipartita fiumi d’inchiostro bagnano la salma, colorata da tutti i pensieri che il tempo e gli uomini hanno prodotto: dalla semplice morte per febbri o malaria, al trapasso influenzato dal dispiacere di non aver servito come bramava il suo signore. Giovanni Villani in poche righe racconta: “Nel detto anno MCCCXXI, del mese di luglio, morì Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta, con cui dimorava[22]”. Quanto dice trova conferma negli studi successivi, solo un dettaglio lo condanna, quel mese di luglio considerato impossibile dagli odierni dantisti, sebbene un discreto numero di autori cinquecenteschi di Vite lo abbiano preso come veritiero (Alessandro Vellutello, Ludovico Dolce, Bernardino Daniello, Papirio Masson)[23]. Già due degli epitaffi per la tomba realizzati pochi anni dopo da Giovanni del Virgilio (Theologus Dantes: “mille trecentenis ter septem Numinis anni, / ad sua septembris ydibus astra redit.”) e Menghino Mezzani (Inclita fama: “vulnere seve necis stratus ad sidera tendens / dominicis annis ter septem mille tercenis / setenbris ydibus presenti clauditur aula.”) lo smentirebbero. Ambedue i testi presentano la data 13 (le Idi) di settembre, al giorno successivo (festa di Santa Croce), invece, la pone nel Trattatello in laude di Dante Giovanni Boccaccio, il quale ebbe modo di intervistare i ravennati che conobbero il Poeta: “mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa, […] al suo Creatore rendé il faticato spirito[24]”. Concorde con l’autore del Decameron furono tre suoi contemporanei: Filippo Villani (“Obiit poeta anno gratie MCCCXXI, idibus Septembris, quo die Sancte Crucis solemnitas celebratur[25]”), Benvenuto Rambaldi da Imola, commentatore trecentesco dell’Alighieri (“Mortuus est in MCCCXXI de mense septembris, in festo Sancte Crucis[26]”) e, nel suo Commento, Francesco di Bartolo da Buti (“finío sua vita, a dí 14 di settembre 1321[27]”). Oggi, alla questione su quale sia il giorno esatto, si risponde datando la morte alla notte fra il 13 ed il 14 settembre, non essendo in grado di assegnarlo indiscutibilmente, ma nei decenni c’è stato chi ha preferito schierarsi dalla parte di Giovanni del Virgilio o di Boccaccio e chi ha optato per il 14-15 settembre. Altri scritti, infine, non danno indizi né sul giorno, né tantomeno il mese, limitandosi a collocare il trapasso al 1321 (Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, fra Giovanni da Serravalle, fra Iacopo Filippo Foresti da Bergamo, Hartmann Shedel, Giovanni Tritemio)[28].

Quale fu la causa? Non lo sappiamo con certezza, attribuendola solitamente alla malaria, ma fu veramente così? Lo studio condotto da Fabio Frassetto[29], l’antropologo che tra il 28 ed il 31 ottobre 1921 fece parte dell’équipe incaricata di occuparsi della riesumazione delle ossa, ci fornisce l’immagine di un Dante alto circa 1,65 m – se non più basso a causa della schiena curva e della senilità di cui soffrì sicuramente negli ultimi anni di vita e che, come di norma nella vecchiaia, gli fece perdere alcuni centimetri –, sofferente di artrite vertebrale senile anchilosante, artrite cronica anchilosante e senilità precoce alla colonna vertebrale. L’analisi confermerebbe i dettagli forniti da Boccaccio nel Trattatello[30] (Ia redazione: “Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto”; IIa e IIIa redazione: “Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed […] nelle spalle alquanto curvo”) e da Villani[31] (“Fuit poeta staturae mediocris […], curvatis aliquantulum renibus incedebat”). L’unico dettaglio mancante è l’esser stato magro, un particolare molto importante se si vuole tentare di capire le cause di morte, poiché potrebbe rivelare un fisico debole, facile preda delle malattie, già afflitto da un apparato osseo danneggiato, quasi sicuramente, dall’intenso studio e dal passato militare, sul terreno di Campaldino (11 giugno 1289)[32].
Ragioniamo, adesso, sul male responsabile: purtroppo le mie personali misere ricerche non hanno dato una risposta diversa da quella finora adottata dagli studiosi, quindi mi vedo costretto a ad accettare l’ipotesi malarica, proseguendo sulla strada tracciata da chi ha passato più tempo sull’argomento. Nessuno tra Boccaccio, Manetti e Villani accenna a questa malattia, limitandosi a parlare vagamente e semplicemente di «febbri» (febris in Manetti, febribus in Villani)[33] o «infermità»(infermato in Boccaccio[34]). La teoria sulla malaria, infatti, è successiva, ma ha una sua logica: l’Italia medievale possedeva numerose aree dove il ristagnamento delle acque portava alla formazione di paludi o acquitrini ideali alla proliferazione della zanzara del genere Anopheles, responsabile del male, tra cui – elenca Mazzi[35] – il Polesine, il delta del Po, le parti incolte del Veneto, il ferrarese e la piana ravennate, guarda caso proprio le terre attraverso cui Dante, probabilmente, passò per andare a Venezia e tornare a Ravenna.
La malattia, nel caso degli esseri umani, viene iniettata dalla femmina di questa zanzara, nella quale avviene il primo ciclo di vita dei protozoi responsabili, i Plasmodium, differenziati in Vivax, Malariae, Ovale e Falciparum. I quattro generi hanno un modus operandi sostanzialmente simile, ma si distinguono fra loro per alcune varianti: Vivax ed Ovale, detti entrambi «terzana benigna», hanno un’incubazione (dalla puntura alla febbre) di 13-15 giorni, sebbene alcuni ceppi vi rimangano per mesi e la febbre si manifesti a giorni alterni; il Malariae, o «quartana», possiede tempistiche più lunghe (28-30 giorni) ed i suoi attacchi febbrili vengono interrotti da temporanea scomparsa; il Falciparum, o «terzana maligna», si sviluppa nel giro di 48 ore, ma la febbre, che scaturisce dopo 9-12 giorni d’incubazione, rispetto al Vivax e l’Ovale dura maggiormente e la riproduzione parassitaria è in molti casi illimitata, fattore cruciale riguardo la percentuale sul rischio di morte, conseguenza di malfunzionamento o insufficienza ad uno o più organi, emorragie, coma (di solito) senza risveglio a pochi giorni dall’inizio della febbre, ecc… Esternamente, l’individuo comincia ad avere intensi brividi di freddo, che dureranno più o meno un’ora, seguiti, per un tempo relativo al singolo parassita, dall’innalzamento della temperatura fino a circa 40° C ed un successivo riabbassamento febbrile e manifestazioni sudorifere.

Riprendiamo ancora la lettera del Doni: Dante informa Guido Novello che si fermerà qualche giorno per godersi le bellezze di Venezia e nessuna fonte esclude la possibilità che l’Alighieri si sia davvero trattenuto più del dovuto nella capitale della Repubblica, dove, sicuramente, quando arrivò non presentava ancora sintomi febbrili, altrimenti il Doge o/e il Senato non avrebbero mai consentito a riceverlo. I segnali malarici – stando a Filippo Villani – sarebbero comparsi durante la residenza, se ciò fosse vero, risulterebbe improbabile che Dante abbia contratto il parassita nell’Urbs sancti Marci, a meno che non vi sia stato per almeno dieci giorni circa. Un viaggiatore ne impiegava più o meno tre per andare da Ravenna a Venezia, quindi, avendo iniziato a manifestare la malattia nella Città lagunare, abbiamo nei tre giorni di viaggio, in uno di rientro a Ravenna e l’ultimo a Venezia il periodo febbrile, il quale dimostrerebbe come il Poeta non fosse stato punto a Venezia, né durante l’andata, ma nella stessa Città romagnola – o nel suo contado –, presente nell’elenco delle zone a rischio.
Tutto questo ci dà l’occasione di poter avere un’idea più precisa su quando avvenne l’ambasciata. Dante spirò fra il 13 ed il 14 settembre, ipotizzando l’arrivo al 12 e sapendo che il parassita impiega tre/quattro giorni per condurre alla morte, l’ultimo a Venezia fu il 9, massimo l’8. Teorizzando una sosta di almeno tre giorni, l’arrivo nella Città dei dogi si porrebbe al 6 o 5 e la partenza da Ravenna, quindi, al 2 o primo settembre. Infine, avendo i vari parassiti Plasmodium – eccezion fatta per il Malariae – un’incubazione in media di 12 giorni, concludo affermando che, alla luce di quanto detto, Dante venne punto nel territorio ravennate alla fine di agosto, ancora più lontano se si considera l’incubazione quasi mensile del Malariae, che porrebbe la somministrazione del parassita alla prima metà del mese. L’ambasciata, senza contare i viaggi di andata e ritorno, dunque, avvenne tra il 5/6 e l’8/9 settembre, o comunque, se si preferisce evitare affermazioni eccessivamente temerarie, all’inizio del nono mese.
Questa presentata è solo un mio breve e scarno tentativo di risposta ad uno dei molteplici interrogativi sulla vita del Sommo poeta, del quale, nel nostro caso, si conoscono solo una data post quem ed una ante quem, ovvero il 17 agosto, quando le relazioni tra Venezia e Ravenna degenerarono definitivamente, e la notte fra il 13 ed il 14 settembre, data più accreditata della morte. Non è possibile nemmeno sapere con sicurezza se fu proprio la malaria la responsabile, in quanto difficile – se non impossibile – da rilevare dalle ossa. In ogni caso, è sicuramente all’interno di quei trenta giorni che va a porsi la missione diplomatica del Fiorentino, al cui rientro, al calore dei lumi notturni, fu obbligato a riprendere il cammino per un viaggio che gli avrebbe permesso di tornar “a veder la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus[36].
BIBLIOGRAFIA
Fonti primarie
- I. Borzi, G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro (a cura di), Dante Alighieri: tutte le opere. Divina Commedia, Vita Nuova, Rime, Convivio, De vulgari eloquentia, Monarchia, Egloghe, Epistole, Quaestio de aqua et de terra, Newton Compton, Roma 2011.
- D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, XXI, vv. 7-15.
- D. Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XVII, vv. 70-71.
- D. Alighieri, Questio de aqua et terra.
- D. Alighieri, Vita nova, cap. XLII [XLIII].
- G. Boccaccio, Vita di Dante, P. Baldan (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 1991.
- L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, A. Lanza (a cura di), Archivio Guido Izzi, Roma 1987.
- G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, S. U. Baldassarri (a cura di), Sallerio, Palermo 2003.
- F. Villani, De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, Giuliano Tanturli (a cura di), Antenore, Padova 1997.
- G. Villani, Nuova Cronica, G. Porta (a cura di), vol. II, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda, Parma 1991, libro X, cap. CXXXVI.
Letture secondarie
- G. Biscaro, Dante a Ravenna (Indagini storiche), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano», Tipografia Borini-Abbiati, Lodi 1922.
- C. Cipolla, La data della morte di dante secondo Ferreto dei Ferreti, estratto dagli Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. 49, s.l. 1913-1914.
- P. Fraticelli, Storia della vita di Dante Alighieri, G, Barbèra, Firenze 1861.
- F. Frassetto, Dantis Ossa. La forma corporea di dante: scheletro – ritratti – maschere e busti, Istituto di antropologia , Bologna 1933.
- M. S. Mazzi, Salute e società nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1978.
- G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, in «Lettere Italiane», XXXV, s.l. 1982.
- P. D. Pasolini Dall’Onda, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna: memorie raccolte da Pietro Desiderio Pasolini, Cellini, Firenze 1874.
- C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, Ulrico Hoepli, Milano 1921.
- C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, E. Chiarini (a cura di), Edizioni «Dante», Ravenna 1965.
- A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, Dottor Francesco Vallardi, Milano 1904.
- A. Torre, I patti fra Venezia e Cervia, in Id., Dante e Ravenna, Edizioni del Girasole, s.l. 1971.
- A. Torre, L’ambasceria di Dante a Venezia, in Id., Dante e Ravenna, Edizioni del Girasole, s.l. 1971.
- G. M. Varanini, Venezia e l’entroterra (1300 circa-1420), in Storia di Venezia: dalle origini alla caduta della Serenissima, vol. III, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A., Roma 1997.
- A. Vasina, Dai Traversari ai Da Polenta: Ravenna nel periodo di affermazione della signoria cittadina, in A. Vasina (a cura di), Storia di Ravenna: dal Mille alla fine della signoria polentana, vol. III, Marsilio, Venezia 1993.
- N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Dottor Francesco Vallardi, Milano 1931.
Articolo a cura di Gianluca Lorenzetti.
Il contributo che abbiamo pubblicato è l’unione delle tre puntate della serie “Dante a Venezia”. Nelle scorse settimane infatti vi avevamo proposto: Il contesto, L’ultima missiva e La fine del cammino.
[1] : Per leggere gli accordi tra Venezia e Ravenna e Cervia a partire dal 1234, cfr. A. Torre, I patti fra Venezia e Cervia, in Id., Dante e Ravenna, Edizioni del Girasole, s. l. 1971, pp. 23-61 eId., L’ambasciata di Dante a Venezia, in ibid., pp. 37-48.
[2] : D. Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto XVII, vv. 70-72, in I. Borzi, G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro (a cura di), Dante Alighieri: tutte le opere. Divina Commedia, Vita Nuova, Rime, Convivio, De vulgari eloquentia, Monarchia, Egloghe, Epistole, Quaestio de aqua et de terra, Newton Compton, Roma 2011, p. 540. Per la discussione sul chi fosse il citato «gran Lombardo», cfr. Nicola Zingarelli in La vita, i tempi e le opere di Dante, Dottor Francesco Vallardi, Milano 1931, pp. 436-439.
[3] : Vd. A. Torre, L’ambasciata di Dante a Venezia, p. 49.
[4] : Cfr. P. D. Pasolini Dall’Onda, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna: memorie raccolte da Pietro Desiderio Pasolini, Cellini, Firenze 1874, p. 158; C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, Ulrico Hoepli, Milano 1921, p. 149; N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, pp. 1324-1325.
[5] : Cfr. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, p. 148.
[6] : Cfr. ibid.
[7] : D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XXI, vv. 7-15, p. 152.
[8] : Vd. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, E. Chiarini (a cura di), Edizioni «Dante», Ravenna 1965, p. 63.
[9] : Cfr. Dante Alighieri, Quaestio de aqua et de terra, p. 1198; G. Boccaccio, Vita di Dante, P. Baldan (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 1991, pp. 102-103; G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, S. U. Baldassarri (a cura di), Sallerio, Palermo 2003, pp. 86-89; L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, A. Lanza (a cura di), Archivio Guido Izzi, Roma 1987, pp. 43-44; P. Fraticelli, Storia della vita di Dante Alighieri, G, Barbèra, Firenze 1861, pp. 244, 256; A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, Dottor Francesco Vallardi, Milano 1904, pp. 79-80, 96; C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 35-37; C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, E. Chiarini (a cura di), p. 40.
[10] : G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, in «Lettere Italiane», XXXV, s. l. 1982.
[11] : Per capire il motivo che vede Guido succedere a Lamberto solo nel 1416, cfr. A. Poloni, Polenta, Lamberto da, in Repertorio delle Esperienze Signorili Cittadine, http://www.italiacomunale.org/resci/individui/polenta-lamberto-da/ (consultato il 20/11/2019).
[12] : Cfr. Ead., Polenta, Guido Novello da, in ibid., http://www.italiacomunale.org/resci/individui/polenta-guido-novello-da/ (consultato il 20/11/2019).
[13] : Cfr. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 20-27; G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, pp. 9-37.
[14] : Vd. N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, p. 738. Anche Pasolini Dall’Onda la etichettò come menzogna artificiale (vd. P. D. Pasolini Dall’Onda, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna: memorie raccolte da Pietro Desiderio Pasolini, pp. 152-153).
[15] : Vd. G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, pp. 19-32.
[16] : Cfr. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 25-26.
[17] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, G. C. Galletti (a cura di), Firenze 1847, https://archive.org/stream/liberdecivitati00villgoog#page/n22/mode/2up, pp. 10-11 (consultato il 07/11/2019) e Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, Giuliano Tanturli (a cura di), Antenore, Padova 1997, pp. 81-83.
[18] : Vd. G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, p. 19.
[19] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 82-83.
[20] : Vd. C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, pp. 154-156.
[21] : Vd. F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 10. Cfr anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 81-82.
[22] : G. Villani, Nuova Cronica, G. Porta (a cura di), vol. II, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda, Parma 1991, libro X, cap. CXXXVI, p. 335.
[23] : Cfr. A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, pp. 209, 211, 213, 219.
[24] : G. Boccaccio, Vita di Dante, P. Baldan (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 1991, p. 108.
[25] : F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, p. 83.
[26] : C. Cipolla, La data della morte di dante secondo Ferreto dei Ferreti, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. 49, s. l. 1913-1914, pp. 1214-1219.
[27] : A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, p. 80.
[28] : Cfr.L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, p. 52; G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, pp. 126-127; A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, pp. 96, 194-195, 197.
[29] : Cfr. F. Frassetto, Dantis Ossa. La forma corporea di dante: scheletro – ritratti – maschere e busti, Istituto di antropologia , Bologna 1933.
[30] : G. Boccaccio, Vita di Dante, pp. 124, 226.
[31] : F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11.
[32] : Cfr. L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, pp. 32-33; G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, pp. 56-57.
[33] : G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, p. 128; F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, p. 11. Cfr. anche Id., De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, pp. 82-83.
[34] : G. Boccaccio, Vita di Dante, p. 108.
[35] : Vd. M. S. Mazzi, Salute e società nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 62-65.
[36] : D. Alighieri, Vita Nova, cap. XLII [XLIII], p. 714.
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