Lo sport in Italia (e non solo) è un mondo riservato agli uomini, specchio di una società che in molti altri contesti marginalizza le donne. Una situazione che sfavorisce non solo la pratica sportiva, ma anche la rappresentanza e il lavoro nel mondo dello sport.
Che lo sport sia un mondo ancora troppo al maschile lo rilevano i dati dell’ultimo report del Coni (2017). Nonostante infatti negli ultimi anni l’incidenza delle atlete sia leggermente aumentata, esse sono solo il 28,2% (massimo storico) rispetto al 71,8% degli atleti su un totale di 4,7 milioni di tesserati. La maggiore incidenza delle donne la si riscontra tra i tecnici, dove rappresentano il 19,8% . Tra gli ufficiali di gara hanno un peso del 18,2%, mentre gli incarichi dirigenziali ricoperti dalle donne superano di poco il 15% tra gli organismi societari. La quota rosa più bassa si rileva tra i componenti degli organismi federali, centrali e periferici, con un’incidenza del 12,4%. Numeri molto bassi che non consentono alle donne di avere un impatto significativo nella gestione sportiva e che rimangono quasi invariati nel resto d’Europa, dove le donne rappresentano circa il 14% delle federazioni sportive.
Come sottolinea la sociologa francese Beatrice Barbuse, autrice del volume Du sexisme dans le sport (2016): «Siccome siamo donne, non siamo competenti a priori. Sta a noi dimostrare la nostra professionalità. Per un uomo non si porrebbe neanche la questione».
Le cause della disparità sono molteplici, ma hanno comunque a che fare con lo stereotipo che vede lo sport come una prerogativa maschile – un quadro che si aggrava in Italia dove l’attività sportiva è spesso considerata un “premio” o un tempo “in più” rispetto ad altre cose ritenute più importanti. Soprattutto, è la minore disponibilità di tempo libero per le donne ad essere uno dei fattori di maggior impedimento alla pratica sportiva. Sempre secondo il report del CONI, infatti, le bambine e le ragazze tra i 3 e i 24 anni hanno a disposizione mediamente 36 minuti in meno dei coetanei maschi da dedicare allo sport a causa degli impegni in ambito familiare. In assenza di dati si può presumere che questo divario temporale negli over 24 rimanga costante o aumenti, anche perché spesso le donne devono pensare alla famiglia e alla casa a causa di uno stereotipo di genere che ha evidentemente una reale influenza nel ruolo sociale che viene assegnato al sesso femminile.
Ad alimentare l’abbandono della pratica sportiva e il divario tra il tempo a disposizione per lo sport è anche la questione del professionismo. Il tema è emerso in Italia con i mondiali di calcio femminili del 2019: forse per la prima volta si dibatteva del fatto che le calciatrici della nazionale di calcio erano considerate amatoriali, nonostante il regime di allenamento ed impegno fosse il medesimo dei colleghi maschi. Anche atlete come la sciatrice Sofia Goggia o la nuotatrice Federica Pellegrini non sono considerate professioniste e gli introiti, là dove non vi sia l’arruolamento in una squadra sportiva di una forza armata, provengono principalmente dagli sponsor. Il problema, quindi, non riguarda ancora l’equità salariale, ma l’accesso al salario. Il dilettantismo, inoltre, non consente la parità di accesso allo sport, anche ai massimi livelli, perché significa avere a disposizione meno denaro da investire in materiale, consulenze e viaggi. Ma sopratutto impedisce l’emancipazione poiché l’assenza di salario e la parità di retribuzione mantengono le donne in uno stato di bisogno, subordinazione e precarietà rispetto all’uomo.
In Italia la legge che disciplina le norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti risale al 1981. Una quadro legale anacronistico che impedisce, per come è strutturato, alle atlete come quelle della nazionale di calcio di essere considerate professioniste. L’unico provvedimento adottato di recente per far fronte al gap di retribuzione è stato a dicembre 2019, quando la commissione Bilancio del Senato ha approvato un emendamento alla legge di bilancio 2020 presentato dal senatore del Partito Democratico Tommaso Nannicini. L’emendamento estendeva alle sportive le tutele previste dalla legge sulle prestazioni di lavoro sportivo, cioè il professionismo, stanziando dei contributi da devolvere nei successivi tre anni a quelle società che avessero stipulato dei contratti professionistici con le loro atlete. Pur rappresentando un notevole passo avanti rispetto alla situazione precedente, l’emendamento non è però stato sufficiente a sanare il divario di genere nello sport. Da un lato, infatti, al termine dei tre anni di contributi le società avrebbero dovuto farsi carico completamente dei costi dei contratti; dall’altro lato l’esonero assegnato alle società professionistiche arrivava ad un massimo di 8mila euro. I costi dei contratti professionistici vengono risolti dalle società sportive con le sponsorizzazioni e, soprattutto, i diritti televisivi. Ma in Europa la copertura mediatica riservata allo sport femminile è solo del 15/20%.
Si torna così al problema di partenza: l’idea secondo cui lo sport è un affare da veri uomini, che in questo caso fa sì che non ci sia lo stesso interesse per lo sport maschile.
Divario di retribuzione e assenza di salario sono “solo” un aspetto delle difficoltà che devono affrontare le sportive. Difatti non poter accedere al professionismo significa anche che le atlete sono private dei diritti che possiede qualsiasi lavoratore contrattualizzato: i contributi pensionistici, i risarcimenti in caso di molestie e le tutele per la maternità.
Allyson Felix è una campionessa di atletica statunitense. Nel 2010 aveva firmato un contratto con Nike che stava promovendo una campagna sullo sport come mezzo di emancipazione femminile. Nel 2018, in occasione delle contrattazioni per il rinnovo del contratto, Felix chiese di includere una clausola di tutela economica in caso di gravidanza. Nike, nonostante l’impegno pubblico per l’emancipazione femminile nello sport, rifiutò di soddisfare la richiesta. La maratoneta e mezzofondista statunitense Kara Goucher, invece, ha dovuto invece rinunciare all’allattamento del proprio figlio ed è dovuta tornare alle competizioni dopo soli tre mesi dal parto, il che le ha comportato gravi implicazioni fisiche. La mezzofondista Alysia Montano ha dovuto invece correre all’ottavo mese di gravidanza per non perdere le sponsorizzazioni. La pallavolista italiana Lara Lugli ha perso lo stipendio dopo essere rimasta incinta.
Chi “osa” parlare per denunciare la situazione viene accusato di aver fatto perdere soldi e sponsor alla squadra, come nel caso della Lugli, oppure viene isolato e licenziato, come è successo a Charlotte Girard – Fabre, arbitro internazionale di hockey su ghiaccio, in seguito alle denunce delle molestie e le discriminazioni che subiva durante gli allenamenti. Gli insulti che le atlete ricevono nei campi di gare e lo hate speech online sono tra le cause, inoltre, di abbandono dello sport assieme agli atteggiamenti sessisti e alle violenze commesse negli spogliatoi.
Come se tutto ciò non fosse sufficiente le sportive subiscono un controllo dei corpi che non ha pari rispetto ai colleghi maschi. Da un lato, infatti, le atlete più muscolose sono oggetto di scherno – “sembra un uomo”; “ma non è una donna” si sente spesso dire – e devono quindi vergognarsi perché non avrebbero un corpo “femminile” – il body shame. Dall’altro certe atlete subiscono invece una vera e propria sessualizzazione del loro corpo. Le atlete che vengono accettate come tali e hanno successo sono infatti descritte come “belle e brave”, oppure con “un fisico da urlo” ed in questo una grossa parte della responsabilità è nei media che contribuiscono a descrivere le atlete che rientrano nei canoni di bellezza in questi termini, come sottolineato nel manifesto Media Donne Sport sottoscritto da Giulia (Giornaliste Unite Libere Autonome) e UISP. Un problema di linguaggio e di sottomissione che ha coinvolto anche la campionessa di sci Lindsey Vonn: prima “icona sexy”, poi soggetta a body shame quando nell’estate del 2020 postò delle foto su Instagram in cui si intravedeva della cellulite. Il controllo dei corpi delle atlete passa anche attraverso le visite mediche, molto più invasive rispetto a quelle cui sono sottoposti gli atleti maschi. Nel report They’re Chasing Us Away from Sport, Human Rights Watch mette in evidenza inoltre che molti di questi controlli si basano su standard antiscientifici e su regole umilianti per le donne che presentano livelli di testosterone più alti della media, le quali devono poi sottoporsi a dei trattamenti volti ad abbassarne i livelli. Tutto ciò nell’assenza di evidenze scientifiche che dimostrino che un livello più elevato di testosterone aiuti le atlete. Sempre Human Rights Watch sottolinea che spesso le procedure più invasive sono subite dalle donne del sud del mondo, le quali sono inoltre accusate con maggior facilità: una discriminazione che combina, così, genere, razzismo e povertà. Talvolta questi controlli sono accompagnati da domande intime e private (hai il ciclo mestruale?) e discriminatorie (esci con un ragazzo o con una ragazza?). A molte atlete, inoltre, vengono prescritte le pillole contraccettive al fine di regolarne il ciclo mestruale, così da soddisfare le esigenze estetiche (i body) e i calendari di gara. Le conseguenze psicologiche sono forti con molti casi di depressione, così come quelle sociali (diverse atlete vengono escluse e discriminate anche nel loro paese) ed economiche (l’accesso ad una carriera sportiva di alto livello richiede molti soldi).
Alcuni provvedimenti sono stati presi per garantire una maggiore parità, come si è visto nel caso dell’emendamento alla legge di bilancio 2020. La FIGC ha espresso inoltre l’intenzione di introdurre il professionismo nel calcio femminile entro il 2022, mentre il CIO ha stabilito che alle Olimpiadi di Tokyo ogni Comitato Olimpico Nazionale dovrà avere almeno un’atleta donna e un atleta uomo nella squadra e che potranno essere nominati due portabandiera, uno maschio e uno femmina. Timidi passi avanti. Lo sport è infatti parte della società: ne rispecchia le diseguaglianze, il razzismo e la povertà.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.