Entro l’11 settembre, ventesimo anniversario dell’attacco alle torri gemelle del 2001, gli Stati Uniti si ritireranno dall’Afghanistan. Ad annunciarlo martedì è stato il Washington Post.
Ma si tratta di un ritiro definitivo dal paese di tutti gli uomini delle forze armate statunitensi oppure di un riposizionamento?
Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan era già stato fissato per il primo maggio dal Presidente Trump poco prima della fine del suo mandato, nonostante l’opposizione del suo partito e dei funzionari del Pentagono. Biden ha trascorso i primi mesi in carica valutando criticamente la tempistica scelta dal predecessore, pur affermando di non pensare che i soldati statunitensi sarebbero rimasti in Afghanistan per un altro anno.
L’argomento principale di chi sostiene che gli Stati Uniti debbano rimanere in Afghanistan è che bisognerebbe valutare le condizioni del paese, attendendo che questo sia stabilizzato e che si abbia la sicurezza che non torni nelle mani dei fondamentalisti. Secondo quanto riportato dal New York Times Biden avrebbe espresso scetticismo nei confronti di questa posizione, in quanto un approccio basato sulle condizioni significa che le truppe americane non lasceranno mai il paese. In base a questa considerazione il Presidente avrebbe scelto di smobilitare le truppe. La decisione di Biden è coerente con la posizione assunta durante il mandato di Vice presidente di Barack Obama, cioè una minima presenza americana nel territorio afghano, principalmente per condurre missioni antiterrorismo.
In ogni caso, secondo le indiscrezioni non si tratterà di un ritiro definitivo, ma di un riposizionamento delle truppe statunitense nella regione al fine di vigilare sull’Afghanistan e sui talebani in modo che questi non possano costituire nuovamente una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati. Alcune truppe, secondo una pratica standard, rimarranno in Afghanistan per proteggere i diplomatici statunitensi.
Il rischio che deriverebbe dal riposizionamento delle truppe starebbe nel fatto che i pochi militari presenti potrebbero non riuscire a fermare un’avanzata talebana nelle città chiave dell’Afghanistan. A tutt’oggi, infatti, è ancora poco chiaro come l’amministrazione Biden riuscirà ad impedire che ciò accada e a far sì che i talebani mantengano l’impegno di recidere i legami con Al – Qaeda. Il riposizionamento, comunque, dovrebbe servire a questo scopo, come del resto la possibilità di ricorrere a bombardamenti mirati sfruttando la costellazione di basi aeree che gli Stati Uniti hanno nella regione del Golfo Persico e in Giordania, cui è da aggiungere un importante quartier generale del Pentagono in Qatar. Il ricorso ai droni e ai bombardieri è stata una prerogativa anche dei predecessori di Biden. Il vantaggio che se ne ricava è di limitare la presenza sul territorio – e quindi le perdite di uomini e i costi che si legano ad avere le truppe nel paese – mantenendo il controllo dei cieli. L’uso di droni e bombardieri ha comunque un costo, è rischioso anche perché possono rimanere uccisi civili e non è estremamente efficace in un contesto di small war – un contesto bellico con nemici deboli sul piano convenzionale, ma insidiosi su quello non convenzionale – in cui gli obiettivi ostili compaiono all’improvviso o hanno il tempo di spostarsi fuori dalla distanza di impatto. Probabilmente gli Stati Uniti si affideranno alle forze speciali per condurre operazioni clandestine, agli appaltatori del Pentagono (i contractors) e alle indagini della CIA per individuare le minacce costituite da Al – Qaeda e dallo Stato islamico – o altro – in Afghanistan, agendo poi per eliminarle.
Nonostante la guerra in Afghanistan sia divenuta nel corso degli anni impopolare in parte dell’elettorato statunitense il Partito repubblicano e alcuni esponenti del Partito democratico hanno espresso contrarietà nei confronti della decisione di Biden di ritirare le truppe. Dello stesso avviso è parte dei vertici militari secondo cui, in base ad una valutazione dell’intelligence, l’uscita di scena delle truppe americane potrebbe scatenare una guerra civile e un ritorno dei gruppi terroristici.
Il destino dell’attuale presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, rimane quindi oscuro. I negoziati di pace tra il governo afghano e i talebani, iniziati a settembre a Doha, in Qatar, sono per lo più bloccati. Nella speranza di far ripartire il processo di pace l’amministrazione Biden ha premuto per un nuovo ciclo di colloqui che dovrebbero iniziare il 24 aprile in Turchia.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.