I lavoratori «mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali», si legge nello Statuto dei Lavoratori (articolo 9). L’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che, «secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», afferma invece l’articolo 2087 del Codice Civile.
Sicurezza e prevenzione sono parole fondamentali e spesso trascurate in Italia quando si parla di lavoro. Diventano note quando muoiono contemporaneamente sette operai (Thyssenkrupp, Torino, 2007). Oppure quando cinque lavoratori vengono avvelenati dentro un’autocisterna di acido solfidrico (Truckcenter, Molfetta, 2008).
Dati, storie e normative suggeriscono invece di non abbassare la guardia, di tenere alta l’attenzione su un aspetto fondamentale nella vita dei lavoratori e delle imprese.
Un anno particolare
Occorre innanzitutto partire con una distinzione. Infortunio e malattia professionale non sono la stessa cosa per l’Inail. L’infortunio è un evento immediato e improvviso. Si differenzia in questo modo dalla malattia professionale – come può essere per esempio il burnout, molto frequente in ambito sanitario – che si presenta lentamente e si ‘stratifica’ nel corso del tempo.
«Gli ultimi dati Inail sono quelli del gennaio-febbraio 2021 confrontati con il primo bimestre del 2020. Assistiamo a un calo degli infortuni di circa il 14%, mentre per i morti sul lavoro ci sarebbe stata una diminuzione di appena 4 unità, da 108 a 104 persone», spiega Franco D’Amico, coordinatore dei Servizi Statistico-Informativi Anmil (Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro). Tuttavia questi dati «sono ancora ‘caldi’ e non particolarmente attendibili». Un riferimento statistico più consolidato può essere fatto confrontando i dati compresi tra il 2020 e il 2019. «L’anno della pandemia è stato particolare. Ci sono state due tendenze contrastanti tra di loro e legate al Covid», sottolinea l’esperto di statistica. La prima spiega la diminuzione degli infortuni (-13,6%) rispetto al 2019: si è passati da circa 642 mila casi a 544 mila. Ci sono diversi elementi da tenere presenti.
Innanzitutto lo scorso anno si è registrato un calo occupazionale, cioè i 940 mila posti di lavoro persi e segnalati poche settimane fa dall’Istat. Inoltre alcuni settori, «come i trasporti e la metallurgia», si sono fermati durante il primo lockdown nazionale e in conseguenza di ciò vi è stata una minore esposizione ai rischi di infortunio. Mentre altre attività hanno fatto un maggiore ricorso allo smart working. La conseguenza? «Molti lavoratori hanno operato dalla propria abitazione e ci sono stati quindi minori rischi durante il tragitto casa – lavoro: gli infortuni ‘in itinere’ sono stati sempre consistenti in questi anni», afferma D’Amico.
«L’anno della pandemia è stato particolare. Ci sono state due tendenze contrastanti tra di loro e legate al Covid».
Il calo degli infortuni poteva risultare maggiore, «almeno del 24%» – evidenzia l’esperto di statistica – se «l’infezione da Covid non veniva riconosciuta come infortunio sul lavoro» e tutelata quindi dall’Inail. Sono 131 mila gli infortuni legati al virus.
La seconda tendenza del 2020 ci racconta invece uno scenario differente: sono aumentati gli infortuni mortali. Si è passati dai 1089 registrati nel 2019 ai 1270 dello scorso anno. «Ciò è avvenuto perché – spiega D’Amico – ci sono stati 423 morti per infezione da Covid. La crescita è avvenuta in tutte le aree geografiche del nostro paese».
Il settore che ha conosciuto una «crescita notevolissima di infortuni e morti sul lavoro è quello della sanità», in prima linea e in condizioni di sofferenza nei mesi in cui in Italia è comparsa la pandemia. «Gli infortuni si sono triplicati rispetto al 2019: si è passati da 27 mila casi a 84mila, il 75% di questi causati da infezione da Covid». Gran parte di essi sono concentrati tra marzo e maggio 2020.
Mentre per quanto riguarda il numero dei morti, «a fronte di una decina di casi avvenuti prima della pandemia, siamo arrivati a 60/70 episodi all’anno nella sanità», rileva D’Amico.
Il 2020 però è stato un anno particolare e, per capire meglio l’entità degli infortuni mortali sul lavoro in Italia, occorre guardare indietro, allargare lo sguardo ai rischi fotografati dall’Inail in epoca pre Covid. L’istituto infatti realizza indici di frequenza che rapportano gli infortuni agli occupati di ogni anno. L’esperto di statistica dell’Anmil li ritiene «coerenti», capaci di restituire quali sono i settori maggiormente a rischio. Gli indici ne individuano in particolare quattro. Si va dalla metallurgia al settore delle costruzioni per poi passare all’agricoltura e alle attività estrattive da cave e miniere. «Quest’ultimo è un settore piccolo ma che ogni anno ha una decina di caduti sul lavoro. Il rapporto tra infortuni mortali e addetti ai lavori è molto elevato», fa notare D’Amico. Mentre per quanto riguarda l’agricoltura – il quarto settore più colpito dai rischi – i morti «sono un centinaio all’anno e la metà di essi è dovuta al ribaltamento da trattore».
In genere, evidenzia infine l’esperto di statistica, il rischio «ha principalmente ‘due punte’. Ci sono i lavoratori più giovani e i loro infortuni sono legati all’inesperienza e alla maggiore esuberanza. Poi ci sono quei lavoratori più anziani che magari non hanno più quella lucidità e capacità di concentrazione che sarebbe necessaria in lavori particolarmente delicati, come per esempio nel settore delle costruzioni, dove la causa più frequente degli infortuni è dovuta alla caduta dall’alto».
Le norme vanno applicate
Il testo unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81), è il riferimento normativo a cui guardare. «Il provvedimento è valido ed è una norma profonda, imponente ed articolata», afferma Maria Giovannone, avvocato giuslavorista e responsabile ufficio salute e sicurezza Anmil. Tuttavia permangono dei problemi perchè «nel nostro ordinamento abbiamo una scarsa efficacia delle tutele dal punto di vista sostanziale e in alcuni ambiti delle misure di prevenzione». Inoltre «il testo unico, a tredici anni dalla sua entrata in vigore, non è stato ancora attuato del tutto». L’emergenza Coronavirus ha poi complicato il quadro d’insieme. «La pandemia ha ampliato e acuito le problematiche già esistenti, aggiungendo nuovi aspetti concernenti le tutele di sicurezza, come il coordinamento tra le norme già esistenti e quelle emergenziali. Parliamo di un’operazione non affatto semplice. In questi mesi si sono sviluppati poi ulteriori adempimenti normativi», spiega Giovannone.
Per esempio nei luoghi di lavoro «il datore è tenuto a mettere in campo le azioni prevenzionistiche anti Covid proprio perchè è un rischio riconosciuto e un agente biologico nocivo», come sancito da una direttiva europea recepita in Italia nel settembre 2020.
«Nel nostro ordinamento abbiamo una scarsa efficacia delle tutele dal punto di vista sostanziale e in alcuni ambiti delle misure di prevenzione».
Secondo l’avvocato giuslavorista il testo unico, con molta probabilità, in questi anni ha agevolato le grandi imprese rispetto alle piccole e medie, che sono la maggioranza delle attività presenti in Italia: secondo stime aggiornate al 2017 sono circa 5,3 milioni. Quest’ultime farebbero più fatica a stare dietro ad una serie di adeguamenti e di costi necessari per garantire l’applicazione del testo unico e la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Per migliorare la situazione bisogna lavorare sulle norme già esistenti e favorire «la firma di protocolli tra Governo e parti sociali, come è stato fatto durante la pandemia». Essi sono in grado di dare maggiore efficacia alle leggi già in vigore. «Bisogna incentivare l’adozione di questi protocolli a livello aziendale. Le contrattazioni integrative possono incidere maggiormente e garantire regole aggiuntive e pienamente operative perché hanno una delega ampia in maniera», sottolinea l’avvocato giuslavorista.
Mentre per quanto riguarda le controversie legali che scaturiscono sui temi della sicurezza le motivazioni che stanno allo loro base sono le più disparate. «La casistica è variegata. Molte riguardano le omissioni in formazione, i difetti delle macchine e l’esposizione a sostanze pericolose», conclude Giovannone.
Pochi controllori
Ma chi si occupa della sicurezza sul lavoro in Italia? Chi sono i controllori? Occorre – anche qua – partire da una distinzione. Innanzitutto nel nostro paese esiste l’Ispettorato nazionale sul lavoro (Inl), che si occupa però degli aspetti contributivi e fiscali relativi alle imprese. Il tema della salute e della sicurezza è in gran parte demandato ai tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Sono operatori sanitari abilitati da un percorso di laurea e iscritti in un apposito albo, che esiste da tre anni.
«Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro sono due temi complementari. Nel corso della mia esperienza mi è capitato di vedere brutte storie, indagini per infortuni mortali. Risulta più facile trovare situazioni di maggior rischio dove non c’è nemmeno un’attenzione verso la tutela legale», racconta Vincenzo Di Nucci, tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro di una Asl e presidente dell’albo di Roma.
Di Nucci è anche docente universitario e diversi anni fa ha aiutato una studentessa nella realizzazione di una tesi. Tema: l’attenzione dei media nei confronti della sicurezza sul lavoro. «Si parla di infortuni sul lavoro solo se si superano certi livelli, se muoiono diverse persone, come i sette operai dello stabilimento Thyssenkrupp di Torino».
L’operatore sanitario fa poi notare che la sicurezza sul lavoro passa fondamentalmente dalla prevenzione e dai suoi tre pilastri. «Innanzitutto abbiamo l’aspetto oggettivo-ambientale, cioè i macchinari, gli impianti o i dispositivi di protezione individuale. Si passa poi all’aspetto soggettivo, che coinvolge le singole persone, perché ognuno ha i suoi comportamenti che riflettono la propria cultura. Infine vi è l’aspetto organizzativo-sociale che riflette la cultura e l’organizzazione aziendale. Se il sistema si ‘tiene in piedi’ funziona. Se invece manca uno dei tre pilastri iniziano i problemi».
Di Nucci lavora da quarant’anni come tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Conosce bene i problemi del settore. «Nel mondo della sanità noi siamo il gruppo professionale che ha il personale con l’età media più alta di tutti. Abbiamo il più basso tasso di ingresso di persone giovani. I nostri servizi vengono fatti da sessantenni prossimi alla pensione».
«Quando ho iniziato a lavorare – prosegue l’operatore sanitario – nel mio dipartimento di prevenzione eravamo in 300. Oggi siamo 150, cioè la metà. In Italia ci saranno all’incirca quattro milioni e mezzo di aziende ma i tecnici di prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro saranno 1800. Nell’Asl dove lavoro io, in provincia di Roma, ci sono 25mila imprese. Noi siamo in 18 e – teoricamente – dovremmo controllare all’incirca 1000 imprese a testa».
Alla carenza di personale si aggiunge un «abuso della professione» riconosciuto dal dlgs 2008, n.81. Il testo unico infatti consente di essere Rssp, cioè responsabile del servizio di protezione prevenzione di un’azienda, senza essere iscritti all’albo dei tecnici di prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro.
«Per diventare Rssp basta fare un corso (anche online) di 120 ore – nota Di Nucci – e che ti costa qualche centinaio di euro. Non mi sembra una grande idea. Così si formano centinaia di migliaia di professionisti semi abusivi che vanno a lavorare nelle aziende. Non vengono valorizzati i tre anni di un corso di laurea e le oltre 4500 ore di studio. Si dà vita a una vigilanza senza progettazione e attuazione che va a impattare negativamente sul sistema delle imprese».
«In Italia ci saranno all’incirca quattro milioni e mezzo di aziende ma i tecnici di prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro saranno 1800».
Secondo l’operatore sanitario bisogna quindi creare «più professionisti da mettere al servizio delle aziende private e allo stesso tempo averne di più nei sistemi pubblici come le Asl».
Inoltre è necessario portare avanti «un percorso di consapolevezza. Noi dovremmo fare un investimento – come è stato fatto in passato in merito alla conoscenza sulla raccolta differenziata dei rifiuti – per spiegare i principi base della prevenzione».
C’è poi da tenere presente un ulteriore aspetto, che spesso non viene preso in considerazione. «Se garantiamo la sicurezza sul lavoro a una persona diamo un futuro alle nuove generazioni. I figli dei mutilati o dei morti sul lavoro prendono l’ascensore sociale al contrario. Come possono crescere? Che opportunità hanno rispetto agli altri? Ci sono aspetti sociali che noi guardiamo con superficialità e che riguardano i figli e le figlie di queste persone», conclude Di Nucci.
Il rispetto della vita umana
«In teoria ci dovrebbe essere molta consapevolezza perché abbiamo un testo unico dettagliato, che prevede parecchi parametri rigidi da rispettare. Ma se si continua a morire di lavoro e sul lavoro ci deve essere per forza un motivo, che si spiega con la mancanza di sicurezza», afferma Debora Spagnuolo, insegnante e vicepresidente nazionale di Anmil. Suo marito è morto sul lavoro dieci anni fa, perché si trovava in un luogo non sicuro: un tetto non calpestabile. «É stato mandato lì senza alcuna protezione. Se lui oggi non c’è più è per via di un mancato investimento in sicurezza, che dipende dalla scarsa considerazione della vita umana. Troppo spesso non si guarda alle conseguenze. Se ti va bene hai un infortunio. Ma se ti va male hai una malattia professionale o la morte. Quello che deve essere chiaro è che dopo l’incidente sul lavoro non si può tornare indietro», racconta Spagnuolo.
Per questa vicenda ci sono state due condanne a due anni e mezzo per omicidio colposo con un verdetto di primo grado. L’iter giudiziario è stato tortuoso, con un processo che si trascina da anni e che vedrà l’appello (cioè il secondo grado) il prossimo 17 dicembre.
« Se lui oggi non c’è più è per via di un mancato investimento in sicurezza, che dipende dalla scarsa considerazione della vita umana».
«Tante volte può accadere che per reati simili si finisca in prescrizione – afferma Spagnuolo – É una vergogna perchè così si uccidono le persone due volte. Chiediamo da tempo una procura specializzata sugli infortuni e sulle morti sul lavoro, in maniera tale da velocizzare i carichi giudiziari pendenti. Esiste già una priorità per simili processi. Tuttavia, se durano in media tanti anni, non si riesce ugualmente ad arrivare a un verdetto e si finisce con la prescrizione».
Inoltre il rispetto delle norme non deve dipendere dalla multa o dalla condanna ma «dal fatto che la vita umana sia davvero importante. Vorrei capire quale sia il valore giusto di una persona. Si continua a lavorare poi nella stessa maniera anche dopo gli incidenti. I familiari delle vittime vorrebbero non tanto un risarcimento economico ma che il fatto non fosse proprio accaduto».
Spagnuolo ricorda poi l’impegno dell’associazione sul fronte della formazione. «Come Anmil ci impegniamo nelle scuole perché la cultura della sicurezza passa anche tra i banchi. Ci si deve abituare fin da piccoli e investire le energie su questo aspetto. Dobbiamo pensare che l’abitudine a comportamenti sicuri protegge non soltanto noi stessi ma anche gli altri, come succede oggi con la mascherina e la pandemia».
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.