“I quotidiani rischiano l’estinzione” è un mantra che si sente ripetere spesso ed effettivamente, dati alla mano, i giornali e le riviste cartacee hanno visto negli ultimi anni una decrescita costante a favore di una crescita di newsletter, podcast, siti di informazione e soprattutto piattaforme social. Un calo di letture che si somma al fatto che storicamente in Italia i lettori di giornali non sono mai stati la maggioranza. Constatata, comunque, la minore centralità che i quotidiani hanno acquisito in questi anni, è altrettanto vero che sono un modo di fare giornalismo (e di informarsi) peculiare, rappresentando inoltre un’espressione culturale che vale la pena proteggere e incentivare, pur cercando al contempo di rinnovarla.
Ma quale è la caratteristica principale di un quotidiano che lo rende un bene da salvaguardare e che lo contraddistingue dall’informazione sul web?
Un quotidiano è una specie di “piccolo libro”, un breviario sui fatti accaduti nella giornata precedente all’uscita in edicola. Si tratta di una visione globale sulla maggior parte degli accadimenti della giornata, collocata all’interno di una struttura che ne consente la comprensione. Detto in altri termini il quotidiano offre al lettore non solo le notizie di politica interna ed estera, economia, sport e spettacolo ma contiene anche interviste e approfondimenti culturali su tematiche attuali come l’ambiente e riflessioni (editoriali) che danno contezza al lettore del dibattito presente nella società, perché un giornale è specchio e arena delle discussioni che animano la realtà che ci circonda. Aspetto ulteriore è che il quotidiano offre una struttura specifica con cui vengono ordinate le notizie, la quale non solo consente al lettore di orientarsi ma anche di far emergere la realtà che altrimenti sarebbe solo una accozzaglia di informazioni. L’ordine delle notizie è presente anche nei siti web dei quotidiani, o nelle piattaforme digitali di informazione come Il Post: ciò che cambia è l’impaginazione. Quella online favorisce più una consultazione a scorrimento verticale, quella dei quotidiani una orizzontale in cui il lettore deve sfogliare le pagine per arrivare ai contenuti che gli interessano.
La quotidianità e la struttura che lo rendono un “breviario” giornaliero rappresentano quindi la ricchezza dei quotidiani e ciò che deve essere salvato. Tutto questo è frutto della linea editoriale, l’espressione dell’orientamento politico/idealistico del quotidiano – e in tal senso è anch’essa espressione del pluralismo e dei dibattiti che animano la democrazia.
La linea editoriale, che non è peculiarità dei quotidiani, è spesso criticata dai delatori dell’informazione perché distorcerebbe i fatti e fornirebbe solo le opinioni di chi scrive. Spesso sono le stesse persone che sostengono la necessità di abolire i finanziamenti pubblici alle testate giornalistiche – è vero che vi sono stati degli abusi, ma diverse realtà virtuose sono sopravvissute grazie ai finanziamenti che così hanno tutelato il pluralismo, pertanto sarebbe più corretto riformare il sistema di accesso – nonostante vi siano numerosi esempi da parte di grandi editori privati di gestione scorretta – si pensi al licenziamento di Carlo Verdelli da La Repubblica – e non sempre orientata alla qualità. La linea editoriale non distorce i fatti: li interpreta, sia che si tratti di giornali, radio, televisione o piattaforme web. Non solo, essa è anche una dichiarazione di intenti e dei principi che muovono chi sta dietro al giornale, così che anche il lettore sappia che cosa aspettarsi perché è in base alla linea editoriale che determinati argomenti o notizie vengono ordinati nel quotidiano o possiedono una centralità che altrove non hanno. Inoltre, come si accennava precedentemente, l’informazione non è un mero insieme di accadimenti da cui la “realtà” emerge in maniera naturale. Le notizie trattate separatamente, o dei dati accostati senza una connessione, non dicono assolutamente niente: i giornalisti, in quanto professionisti dell’informazione, hanno infatti la capacità di sintetizzare e rendere accessibili al grande pubblico le informazioni. La realtà diviene un quadro leggibile nel momento in cui delle persone raccolgono i dati e i fatti, sanno leggerli e connetterli tra di loro e quindi sviluppano una narrazione esplicativa di quella che è, a quel punto, la giornata. Non è un caso che si definisca quadro della realtà. Per farlo serve un team (la redazione), perché nessuno può avere la capacità di informarsi su tutto, e le competenze necessarie per leggere ed interpretare tutto ciò che ci circonda. Soprattutto serve tempo: quello che chi lavora non sempre possiede. La linea editoriale non va quindi necessariamente ad intaccare l’informazione in sé per sé che viene riportata. Essa fornisce una lettura, che è cosa diversa della spiegazione più analitica dell’accadimento, dei vari fatti o del singolo fatto in connessione ai suoi antecedenti – perché mai si tratta di eventi che irrompono nella quotidianità, ma di fatti che hanno un loro prima, durante e dopo. La lettura, se non diviene faziosa e capziosa, è inoltre funzionale alla scelta della preminenza delle tematiche a cui dare maggior risalto. Non è possibile, infatti, parlare di qualunque cosa e di tutto allo stesso modo: è necessario operare delle scelte e la linea editoriale serve a questo, anche per il lettore che così è guidato nell’acquisto del quotidiano. I giornali, inoltre, ampliano spesso l’offerta con inserti e riviste che talvolta sarebbero difficilmente accessibili – è il caso, ad esempio, de Il Manifesto che in Italia pubblica la traduzione del periodico francese Le Monde Diplomatique.
Esistono diverse testate digitali che applicano il metodo dello slow journalism, cioè un giornalismo lento ed approfondito. Ma sul web si è spesso di fronte a una mole di informazioni che fino a una ventina di anni fa era pressoché inconcepibile. I quotidiani cartacei devono operare delle scelte – non possono fare altrimenti perché hanno degli spazi ristretti dovuti alle esigenze di stampa – che si suppone vengano fatte anche in nome della qualità la quale dovrebbe primeggiare grazie al tempo più dilatato che il giornale ha per verificare le informazioni e approfondirle. Inoltre, sul web l’informazione si lega spesso a quel che si vuole sentire o leggere a causa degli algoritmi che tendono a suggerire contenuti in linea con le nostre preferenze: è un mondo sempre più egocentrico, centrato sul proprio io, quello senza quotidiani. E pericoloso, perché i social ancora non sono riconosciuti come editori pertanto non devono sottostare alle regole dei giornali, potendo così decidere in base a considerazioni interne quando e se chiudere l’accesso sulle loro piattaforme a chi fa informazione, come successo recentemente in Australia. Ma anche senza gli algoritmi sul web si è generalmente più orientati a scegliere solamente ciò che ci corrisponde evitando ciò che potrebbe mettere in discussione le proprie convinzioni. Se è pur vero che la scelta del quotidiano si basa anch’essa su preferenze personali, il giornale non solo non riporta sempre ciò che il lettore vuole sentirsi dire – l’editoriale e gli opinionisti dovrebbero essere taglienti e mordaci, consapevoli del ruolo pubblico che hanno nello stimolare il dibattito – ma viene sfogliato: uno “sforzo” di ricerca che aumenta le possibilità che ci si imbatta nel disaccordo o nel non conosciuto. Insomma: il quotidiano è anche un custode della diversità e un mezzo per ampliare le proprie conoscenze. Nelle parole del direttore de L’Eco di Bergamo Alberto Ceresoli un quotidiano è “senso critico e conoscenza” – e proprio L’Eco con le sue inchieste sul COVID -19 dovrebbe ricordarci quanto fondamentale sia il ruolo di giornali e giornalisti, anche a livello locale.
I quotidiani sono, quindi, una sorta di breviario per orientarsi nel mondo: un piccolo libriccino che ogni giorno narra con serietà e distacco (se è rigoroso) che cosa è accaduto nel mondo. Ma per l’appunto: accaduto. E proprio questa dimensione passata e al contempo attuale è la peculiarità e la forza dei giornali, perché consente di approfondire e verificare pur rimanendo in una cornice di tempo non eccessivamente dilatata. Sarebbe questo un servizio di qualità, ma purtroppo non sempre è così: numerosi sono gli esempi di quotidiani che hanno privilegiato strategie di marketing e che non sempre hanno divulgato in maniera attenta – si pensi al caso della vecchia intervista a Brunetta pubblicata dal Corriere della Sera come nuova o all’intervista del direttore de La Repubblica Maurizio Molinari al fondatore del giornale Eugenio Scalfari dove venne sbagliato l’anno della morte di Berlinguer e la durata del rapimento Moro – complice anche un evidente declino della correzione dei pezzi dati in stampa che con i suoi errori contribuisce ad alimentare la sfiducia (e il declino) dei quotidiani. Un problema di “mal giornalismo” che ha radici lunghe. Il discredito del giornalismo italiano, cavalcato da tempo da certe formazioni politiche, che ha contribuito alla crisi delle letture è in parte dovuto anche al fatto che storicamente diverse realtà giornalistiche erano (e sono) troppo “morbide” o vicine ai poteri forti. Già nel 1959 Enzo Forcella nel celebre articolo Millecinquecento lettori criticava la scarsa incisività nella società italiana del giornalismo e l’equilibrismo di questo tra le varie correnti politiche. Perché quel che spesso manca ed è mancato al giornalismo italiano è stato effettivamente un atteggiamento distaccato e severo nei confronti del potere politico ed economico, nonostante esempi virtuosi vi siano e vi siano stati – alcuni dei quali celebrati come martiri solo dopo essere caduti, magari per mano della criminalità organizzata. Aspetti che, per l’appunto, hanno contribuito a gettare discredito sul giornalismo tra i lettori italiani.
Tutti questi problemi si legano in parte a quello più ampio del (quasi) monopolio dell’informazione, nel nostro caso cartacea, detenuto in Italia da Gedi e RCS, di cui il primo in questi mesi si è reso responsabile di decisioni estremamente rilevanti riguardo la composizione delle redazioni o delle pubblicazioni senza consultare i suoi dipendenti così come accaduto anche al Sole 24 Ore. Avere buoni editori, che fanno della qualità la base del loro impegno nell’editoria, è fondamentale per mantenere sano un Paese. I finanziamenti pubblici servono infatti a mantenere il pluralismo là dove certi editori preferirebbero chiudere in mancanza di ingenti guadagni – potrebbe essere il caso di Radio Radicale, unica emittente a trasmettere in diretta i dibattiti parlamentari. I finanziamenti sono un grave problema poiché a fondi ristretti significa meno (o nullo) compenso per molti giornalisti – a differenza dei paesi stranieri – e scarsità di risorse per promuovere le inchieste e gli approfondimenti. Esiste una terza via, quella del crowdfunding, ma non sempre garantisce l’autosufficienza. Tutto ciò è ironico se pensiamo che l’Italia si fregia spesso del titolo di “paese della cultura”, con la Costituzione che all’articolo 21 esprime la tutela della libertà di espressione, la quale è però minacciata dal fatto che la professione del giornalista è estremamente precaria da un punto di vista economico, nonostante la stessa Costituzione sostenga nell’articolo 1 che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.
I quotidiani rappresentano quindi una risorsa per il Paese: pur vedendo calare le vendite, la loro centralità non è certo da sottovalutare. Molto banalmente, se i giornali fossero veramente finiti come spiegare la centralità data a Gedi dagli Agnelli – Elkann anche nell’acquisizione de La Repubblica o il fatto che il creatore di Amazon Jeff Bezos abbia acquistato nel 2013 il Washington Post? Ma per l’appunto, la forza di alcuni editori non sempre rappresenta un salvagente per i quotidiani in difficoltà. In ogni caso i giornali continuano ad essere una presa di posizione del lettore riguardo al suo ruolo di cittadino attivo ed informato, ma anche consapevole: passi necessari affinché fiorisca il dibattito pubblico. Del resto l’atto stesso di recarsi dal giornalaio, dove talvolta inizia lo scambio di opinioni, è una prova di questo impegno del lettore, ma anche della fiducia che egli ripone nella redazione.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.