Pensare di poter scrivere qualcosa su Bob Dylan intimidisce. Specialmente oggi che compie ottanta anni, sessanta (almeno) dei quali passati a comporre musica, poesie, scrivere libri come Tarantula (1971) o a dipingere quadri. Intimidisce perché chiunque sia un minimo avvezzo alla sua musica conosce o avrà sentito nominare My Life in a Stolen Moment, poesia composta intorno al 1962 in cui Dylan traccia, con pennellate decise e per sommi capi, la sua vita fino a quel momento. Soprattutto parla dell’irriducibilità delle radici culturali e/o esperienziali da cui l’arte prende vita.

Woody Guthrie, sure
Big Joe Williams, yeah
It’s easy to remember those names.

But what about the faces you can’t find again
What about the curbs an’ corners an’ cut-offs
that drop out a sight an’ fall behind.

My Life in a Stolen Moment sottolinea l’impossibilità di sapere che cosa ispira e non ispira l’artista, in quanto egli è partecipe dell’umanità che gli sta attorno, la osserva, la mette al centro della sua opera. È un discorso, quello di Dylan, ben poco accademico: al di là delle influenze della cultura “alta”, da cui egli non sfugge, ci sono gli artisti “popolari” come Woody Guthrie e Joe Williams. Ma soprattutto la quotidianità, le persone comuni «come me e te», citando Guthrie. Del resto la vita è «aggrovigliata nel blu», come recita il titolo e il ritornello di una delle, a mio avviso, più belle canzoni di Bob Dylan: Tangled up in Blue, prima traccia dell’album Blood on the Tracks del 1975. La canzone è sia un’analisi introspettiva sia un’analisi della storia del movimento di contestazione degli anni Sessanta di cui Dylan aveva fatto parte. Ma è anche molte altre cose, come spesso accade nei suoi componimenti: è una riflessione esistenziale con velati riferimenti alle opere di Camus per l’aspetto che riguarda il malessere di vivere – il blue che è, allo stesso tempo, un’allusione al blues – e alla ricerca di un qualcosa nella vita, nonostante questo qualcosa sia sempre sfuggente. È una canzone dedicata al mistero, intrisa degli elementi “classici” di certa narrativa e musica statunitense: Jack Kerouac e Woody Guthrie su tutti, assieme al tema del viaggio visto che l’ambientazione cambia in ogni strofa, e che comprende anche il West e il viaggio in auto: «We drove that car as far as we could/ Abandoned it out West». Ma è anche narrativa di classe «They never did like Mama’s homemade dress/ Papa’s bankbook wasn’t big enough» e che passa anche per riferimenti della cultura “alta”: «Then she opened up a book of poems/ And handed it to me/ Written by an Italian poet/ From the thirteenth century/And every one of them words rang true», in cui il sottinteso poeta è Dante Alighieri verso cui Bob Dylan ha professato ammirazione anche nella sua autobiografia Chronicles (2004).

Quando a Bob Dylan è stato assegnato il premio Nobel nel 2016 (ritirato nel 2017) si è molto discusso se ad un musicista potesse essere dato questo premio. Dylan è sempre stato un personaggio divisivo. Con la famosa svolta elettrica del Newport Folk Festival del marzo del 1965, già in parte anticipata dall’album Bringing It All Back Home, sempre del marzo 1965, e confermata con Highway 61 Revisited dell’agosto dello stesso anno, il cantante si poneva apparentemente al di fuori del folk revival, movimento di “riscoperta” della musica folk statunitense e del suo potenziale di contestazione. Dico apparentemente perché di fatto Dylan creò un nuovo genere, il folk rock, riadattando le radici folk al proprio tempo, seguendo quello che pare essere stato un suggerimento di Guthrie. In tal senso l’evoluzione artistica di Dylan è sempre stata al di fuori degli schemi, fino ad arrivare ad una canzone lunga diciassette minuti e senza ritornello: Murder Most Foul (2020). Ma anche apparentemente contraddittoria per chi pretende(eva) che fosse (sia) in un certo modo. Si pensi alle polemiche intorno ai suoi concerti, in cui spesso cambia radicalmente le proprie canzoni aggiungendo o togliendo versi e strofe, con nuovi arrangiamenti – chi scrive ha sentito, in uno dei tanti concerti di Dylan cui è stato, una versione di Blowin in the Wind con il violino. La ragione la spiega lui stesso nella sua autobiografia: non ha senso cantare una canzone scritta quaranta anni prima in maniera identica. Le cose cambiano, il messaggio essenziale rimane, ma va riadattato per essere del proprio tempo – e per non essere delle macchiette. E di nuovo durante la Nobel lecture Bob Dylan non si sottrae all’interrogativo se la musica può essere considerata una forma di letteratura, evitando una risposta semplice che tiri in ballo il fatto che spesso in passato la poesia era accompagnata dalla musica e cantata.

Parlare di Bob Dylan è quindi difficile perché la sua scrittura è una forma di poesia. Come spiega la commissione del Nobel, il premio gli è stato assegnato «per avere creato nuove espressioni poetiche nell’ambito della grande tradizione della canzone americana». Ma se teniamo di conto che «una canzone è qualcosa che cammina da sé» e la diffusione planetaria dei suoi album ci renderemo conto dell’influenza sterminata di Dylan sulla cultura e la società mondiale negli ultimi sessanta anni.

Per tutte queste ragioni parlare oggi di che cosa sia l’arte di Bob Dylan, o Bob Dylan stesso, sarebbe estremamente difficile se non impossibile. Anzi, forse sarebbe in contrasto con quanto il cantautore vorrebbe. Si potrebbe citare qui l’enorme influenza che Woody Guthrie esercitò su di lui – e quindi la musica di Joe Hill e del sindacato degli Industrial Workers of the World – in termini politici, artistici, ma soprattutto di narrativa: le canzoni di Dylan sono infatti dense di personaggi, una caratteristiche che egli prende, portandola alle estreme conseguenze, dalla musica folk e blues. Ma si tratta anche di canzoni che colpiscono duro per persone colpite duramente, parafrasando sempre Guthrie il cui grande lascito ad un certo tipo di musica statunitense, come quella di Bruce Springsteen, fu di comporre musica che parlasse dei lavoratori, delle persone sfruttate e ai margini, anche di storie tristi ma senza infondere tristezza, dando coraggio, senso di unità e speranza. Sarebbe però riduttivo pensare che Dylan non abbia radici nella country music, basta qui citare l’album Nashville skyline (1965), o nel jazz, nello swing e nel crooner, si pensi agli ultimi album, soprattutto Triplicate (2017). E ancora la religione: Dylan viene da una famiglia ebraica e molti dei suoi testi sono intrisi di riferimenti biblici: Highway 61 Revisited (1965) contenuta nell’omonimo album, oppure la triade di Time Passes Slowly, New Morning e Father of Night contenute in New Morning del 1970. Canzoni in cui esiste, di nuovo, un tramite rappresentato da Woody Guthrie. L’aspetto religioso è un elemento da non sottovalutare nella sua produzione artistica che, dopo la conversione al cristianesimo nella metà dei Settanta, vide la produzione di tre album ispirati a questa tematica: Slow Train Coming (1979), Saved (1980), Shot of Love (1981). Tematica che ritorna per certi aspetti anche con l’album del 2009 Christmas in the Heart in cui Dylan rivisita alcuni classici di Natale, molti dei quali composti da musicisti di fede ebraica. Di nuovo ridurre Dylan a questi aspetti non è possibile, come non può essere associato solo alla contestazione nonostante la sua musica sia contestativa nella misura in cui da voce agli svantaggiati e alle persone comuni, senza tralasciare la politica interna ed estera – un esempio su tutti: l’album Infidels del 1983. Ma anche la storia statunitense, come in alcuni brani di Love and Theft (2001), il razzismo e le battaglie per i diritti civili – ad esempio il brano Hurricane (1976) – fino alle influenze esercitate da artisti a lui contemporanei come Leonard Cohen che viene omaggiato in Political World (1989) nel verso «You climb into the frame», ripreso da Love Calls You By Your Name (1971) del cantautore canadese.

Insomma ridurre Bob Dylan ad un’analisi, a un racconto o a un articolo è impresa difficilissima se non impossibile. Del resto sulla sua storia e le sue influenze parla la sua musica. Come l’album Love & Theft (2001), un vero e proprio uragano di cultura e storia statunitense e non solo: Django Reinhardt, Chet Baker, le ballate di Tin Pan Alley, con reminescenze che derivano dai western di John Ford, ritornando poi a Kerouac. Perché la vita e l’opera di Dylan non sono riducibili a una qualsiasi voglia analisi, ma sono in parte deducibili da quegli istanti di vita rubata che sono i suoi componimenti.

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