La vicenda di Giulio Regeni inizia cinque anni fa, il 25 gennaio 2016, quando il dottorando di Cambridge venne rapito nei pressi della metropolitana de Il Cairo. La settimana successiva il suo corpo nudo, privo di vita e livido dalle torture venne ritrovato al margine di un fosso della periferia della capitale egiziana. Giulio Regeni aveva 28 anni.
Sono trascorsi più di cinque anni da allora: cinque anni di mistificazioni e teorie poco credibili – come il video complottista pubblicato in concomitanza con la prima udienza del processo della procura di Roma contro quattro membri dei servizi di sicurezza egiziani accusati dell’omicidio di Giulio – affermazioni secondo cui nel caso Regeni la ricerca di verità e giustizia dovrebbero sottomettersi alle esigenze della realpolitik. Niente di più sbagliato. La vicenda, infatti, per come è stata gestita dai vari governi italiani, è stata una dimostrazione di debolezza e inaffidabilità agli occhi nostri e del mondo. Realismo, difesa dell’interessa nazionale, è la capacità di uno Stato di difendere credibilmente i propri cittadini e i loro diritti fondamentali. Perché un cittadino è come un pezzo del paese in viaggia per il mondo. Pertanto, attaccare un connazionale è attaccare lo Stato. La ricerca di verità e giustizia divengono, perciò, difesa del paese e quindi dimostrazione di forza e di coerenza rispetto l’interesse nazionale. Ciò che fanno, ad esempio, gli Stati Uniti quando aprono le basi militari all’estero: prendono accordi politici con le autorità locali per garantire l’immunità ai propri soldati.
In cinque anni non è stato ottenuto molto a causa dell’ostruzionismo egiziano e della scarsa se non assente azione dei vari governi italiani. Solo la magistratura ha proseguito nel proprio compito, pur se condizionata dalle limitazioni della politica. Ma dimostra anche incoerenza rispetto a quel che viene affermato dalla politica rispetto alle azioni concrete. Nel 2017 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per tortura rispetto a quanto accaduto a Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. Regeni era stato rapito e torturato nel 2016, quando l’Italia non aveva una legge che tutelasse chi come lui era vittima di tortura. È stata fatta l’anno dopo, nel 2017. Ciononostante non è interessato allo Stato italiano creare una coincidenza tra gli intenti e i propositi della legge sulla tortura e la ricerca della verità per Giulio. Detto in altri termini, non è stata ricercata una coerenza a livello di narrazione – cioè di immagine che il paese vuole dare di sé all’interno e all’esterno – con i suoi propositi. Difatti nel comunicato congiunto del 30 novembre 2020 tra procura egiziana e italiana per la chiusura delle indagini al Cairo non è mai stata menzionata la parola tortura.
Il precedente di Regeni ha permesso l’incarcerazione di Patrick Zaki, non un cittadino ma uno studente dell’Università di Bologna. E forse è bene ricordare che Regeni non era un cittadino italiano, ma europeo. Ciò dimostra la debolezza della diplomazia comunitaria, causata dalla mancata cessione di sovranità da parte degli Stati membri. Di nuovo, comunque, nel caso di Zaki torna l’incapacità di proiettare un’immagine credibile del paese. È infatti iniziato l’iter che dovrebbe concedere a Zaky la cittadinanza italiana. Lo studente dell’Università di Bologna è stato incarcerato anche per il suo attivismo LGBQT+. Regeni venne accusato di omosessualità. Perché l’omosessualità è un reato in Egitto. In queste settimane in Italia si discute della legge Zan sull’omotransfobia, ma non sembra esserci interesse a far combaciare questi temi.
Zaki non è l’unico studente egiziano all’estero arrestato negli ultimi anni. Al – Sisi agisce impunemente nei confronti dei paesi membri dell’Unione Europea (e non solo) per mandare un doppio messaggio: alla propria opinione pubblica e a quella internazionale. Alla prima sottolinea che lo spazio di oppressione, anche violenta, può estendersi anche al di fuori dei confini dello Stato: nessun cittadino egiziano deve sentirsi al sicuro se non rispetta le regole imposte dal regime. Alla seconda si comunica che non si accettano né ingerenze né lezioni. Anche se forse dovremo interrogarci sulla parziale scomparsa del tema dei diritti umani dai dibattiti e dalle azioni dell’opinione pubblica internazionale, poiché anche l’incapacità di agire, di tutti i cittadini dell’Unione Europea e del mondo, come un’unica voce attraverso azioni condivise volte a tutelare i diritti umani consente ai paesi come l’Egitto di agire impunemente.
In questi cinque anni sono circolate teorie secondo cui l’assassinio di Regeni sarebbe stato un errore. Alcuni testimoni hanno visto Giulio rapito dagli agenti del National Security, il servizio segreto egiziano. Quando al – Sisi arrivò al potere nel 2013 fu coadiuvato dai militari. In un regime come quello egiziano, dove non solo l’esercito, ma anche la polizia e i servizi sono centralizzati nelle mani di chi detiene il potere, appare difficile credere che si sia trattato di un errore. Perdipiù durato una settimana e che ha coinvolto un cittadino di un paese straniero. Il messaggio che è stato mandato alle università straniere è chiaro: non si accettano ricercatori che indaghino negli affari del paese. L’Europa e in particolar modo l’Italia sono la patria delle università. La libertà della ricerca è uno dei capisaldi delle nostre democrazie. Quel che è stato fatto a Regeni e ai ricercatori di tutto il mondo, che ora temono ad andare in Egitto, è una minaccia alla libertà di ricerca che l’Unione Europea dovrebbe invece tutelare. Ma anche in questo caso, all’Italia e all’Europa è sfuggita la necessità di stabilire una coerenza con i propri propositi e ideali e l’azione esterna.
Con l’Egitto non è possibile dialogare: ogni democrazia deve domandarsi che direzione vuole avere e quale tipo di coerenza ricercare. Un paese che non rispetta gli standard di tutela dei diritti umani e che rinnega il pluralismo non può essere considerato uno Stato con cui le democrazie possono parlare. Ne va della loro credibilità, ma anche della loro coerenza. Secondo l’ultimo report di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo le condanne di questo tipo in Egitto sono triplicate nel corso dell’ultimo anno. Il paese dei faraoni è al terzo posto nella classifica mondiale per esecuzioni capitali, dietro alla Cina e all’Iran. Sempre secondo i report di Amnesty, all’epoca del rapimento di Giulio Regeni i rapimenti, le torture e le uccisioni degli oppositori al regime (e presunti tali) erano la prassi in Egitto. E lo sono ancora.
Chi governa l’Egitto sa che il proprio paese è un’indispensabile medio potenza regionale: è in base a questa consapevolezza che Il Cairo può ricattare l’Europa attraverso i dossier internazionali. Uno Stato che adotta un approccio realista non lo consentirebbe. Al – Sisi ha rafforzato lo status del proprio paese decidendo di affiancare Haftar in Libia, divenendo così un attore fondamentale per la gestione dei flussi migratori. Non solo, quando Al – Sisi arrivò al potere nel 2013 vi erano delle infiltrazioni di ISIS nel Sinai, pertanto il dittatore egiziano è divenuto un utile alleato anche su questo fronte. Al – Sisi ha poi saputo sfruttare il contesto internazionale: ha rafforzato ulteriormente la propria posizione accettando l’invito alla creazione di un asse con Arabia Saudita e Israele fortemente voluto dall’amministrazione statunitense di Donald Trump. Negli anni immediatamente successivi alla sua presa del potere, inoltre, le principali potenze europee in Nord Africa stavano ripiegando parzialmente: la Francia si ritirò dalla Libia nel 2014, il Regno Unito approvò il referendum sulla Brexit nel 2015, per votare l’anno successivo.
In Italia fondamentalmente tutti i partiti o gli esponenti politici di primo piano hanno dimostrato scarso interesse per Giulio Regeni. Il 20 novembre 2020 Conte telefona ad al – Sisi: si parla di cooperazione economica, militare e politica, si accenna a Regeni ma non si parla di cooperazione giudiziaria.
Il 24 novembre dello stesso anno la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni ascolta Matteo Renzi, all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio. Renzi sostiene che Regeni sarebbe scomparso il 31 gennaio. L’allora ambasciatore italiano al Cairo Maurizio Massari sostiene invece una posizione diversa, cioè di essere stato informato il 25 gennaio assieme ai servizi segreti. Una versione che viene confermata anche da Paolo Gentiloni, all’epoca Ministro degli esteri. Credere a quanto sostenuto da Matteo Renzi è difficile perché in Italia i servizi fanno riferimento alla presidenza del Consiglio. In ogni caso l’intera vicenda dimostra scarsa trasparenza nella gestione dell’affare Regeni.
Giugno 2018: Matteo Salvini, all’epoca Ministro dell’interno, sostiene riferendosi a Giulio Regeni: «per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un paese importante come l’Egitto». In diverse località dove la Lega ha eletto i propri rappresentanti a sindaci sono stati rimossi gli striscioni che chiedono verità per Giulio.
Febbraio 2021: si insedia il governo Draghi. Nessuna menzione viene fatta dal nuovo Presidente del Consiglio, durante i discorsi per la fiducia in Parlamento, a Regeni nonostante si faccia riferimento alle violazioni dei diritti umani in Russia e, alcune settimane più tardi, venga definito Erdogan «un dittatore con cui dobbiamo collaborare». Due dichiarazioni oltretutto contraddittorie e che dimostrano l’incoerenza (e l’inaffidabilità) della politica estera italiana.
Nel caso di Giulio Regeni vi sono state anche decisioni poco opportune che hanno gettato discredito sulla reale volontà politica di agire per fare verità. È il caso, ad esempio, di Angelino Alfano, ministro dell’Interno all’epoca della sparizione di Regeni e ministro degli Esteri tra il 12 dicembre 2016 ed il 1 giugno 2018. Già il 30 giugno 2018 la BonelliErede Pappalardo, un grande studio legale con sede principale a Milano, annunciava sul proprio sito che dal 2 luglio 2018 l’ex ministro sarebbe entrato nel nuovo focus team dedicato all’Africa e al Medio Oriente, affiancato da Ziad Bahaa – Eldin, ex vicepremier di Al – Sisi.
Nonostante i governi italiani affermassero pubblicamente di impegnarsi nella ricerca per la verità e la giustizia per Giulio Regeni in questi anni le commesse di Eni in Egitto sono state confermate. L’Italia ha venduto 24 caccia bombardieri Eurofighter Typhoon e 24 addestratori M-346 a Il Cairo per un totale di 9-10 miliardi. Fincantieri ha venduto due fregate militari per un totale di 1,2 miliardi di euro, privandone l’esercito italiano. Un approccio realista ha tra i suoi primi obiettivi mantenere l’esercito del proprio paese in ottimo stato. Una fregata è già stata consegnata, l’altra è stata data a marzo di questo anno. In entrambi i casi i militari egiziani hanno prima affrontato un addestramento a La Spezia fornito dai soldati italiani. A marzo di questo anno un militare egiziano ha tentato di stuprare una commessa di un solarium, sempre a La Spezia. Denunciata l’aggressione, i Carabinieri si sono recati all’hotel dove alloggiava il soldato per notificare l’inizio delle indagini, ricevendo assicurazioni che l’indagato sarebbe rimasto in Italia. Ai primi di aprile i Carabinieri si recano nuovamente all’albergo per notificare un’ordinanza di custodia cautelare, ma il militare era già rientrato in patria, «richiamato» secondo i suoi commilitoni. Il precedente di questo episodio è Regeni, come tutti gli studenti egiziani in Europa come Zaky, arrestati senza che Roma, Bruxelles e le altre capitali europee abbiano fatto qualcosa. È la dimostrazione che all’Italia e all’Europa si può fare di tutto perché la politica e la diplomazia non sono forti a sufficienza per proteggere dalle aggressioni i propri cittadini – per di più in un paese come l’Italia, dove il 31,5% delle donne ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale.
Nel 2019 le vendite militari all’Egitto da parte dell’Italia ammontavano a 871, 7 milioni, nel 2018 a 69 milioni, nel 2017 a 7,4. Comprendono anche le armi leggere usate dalla polizia per soffocare le manifestazioni e per arrestare e torturare studenti e cittadini come Giulio e Patrick. Anche i Cinque Stelle, che nel corso di questi anni avevano affermato di essere contrari alla vendita di armi all’estero, hanno confermato le commesse una volta arrivati al governo, difendendo il proprio operato anche di fronte alla Commissione parlamentare di inchiesta per la morte di Giulio Regeni attraverso le parole del Ministro degli esteri Luigi di Maio, ex Capo politico del Movimento. La stessa Commissione il 1 dicembre scorso ha audito il professore di Diritto internazionale dell’Università di Siena Riccardo Pisillo Mazzeschi, il quale ha affermato che: «le misure finora prese [dall’Italia] possono essere considerate “poco amichevoli” ma non vanno al di là di questo». Il medesimo giorno è stato sentito anche il professore Sergio Marchisio che ha detto: «occorre che l’Italia precostituisca le condizioni per un eventuale giudizio di fronte alla Corte internazionale dell’Aia. […] I tempi sono maturi per questo passo».
È, insomma, necessario che l’Italia, attraverso il suo governo e i canali istituzionali, prenda una posizione forte, chiara e netta come chiesto anche dai genitori di Giulio Regeni. Cioè che sfrutti i canali istituzionali e internazionali a sua disposizione, dimostrando coerenza d’intenti e rafforzando la posizione italiana nel campo internazionale. Soprattutto mettendo la parola fine ad un’ingiustizia durata cinque anni. Anche perché senza credibilità difficilmente si ottiene qualcosa nella politica internazionale.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.