Lo sport è politica, inutile sostenere il contrario. Lo è perché è parte della società e della cultura, perché nello sport le contraddizioni, le asimmetrie, le diseguaglianze e quant’altro è presente nel nostro vivere comune non solo si riverberano, ma influenzano le prestazioni degli atleti e il contesto in cui gareggiano. Le atlete, ne abbiamo parlato qui, hanno infatti meno possibilità rispetto agli atleti, perché le asimmetrie e le diseguaglianze di genere incidono sulla parità nello sport. Di offese razziste ed esclusioni nelle squadre per il colore della pelle gli esempi sono tanti e ognuno di noi ne ricorda qualcuno – qui giusto per citarne uno dei tanti. Per non parlare della dimensione politichese della politica, quella cioè fatta dai politici, dai ministri, dai rappresentanti di Stato perché lo sport e le società sportive sono terreno di contesa di finanziamenti statali, ma anche di scontri a livello di immagine tra potenze rivali – basta qui pensare al dibattito statunitense sul boicottaggio delle olimpiadi invernali in Cina del prossimo annoe di tensioni e dibattiti tra paesi membri dell’Unione Europea, come dimostrato con la querelle sui colori arcobaleno dello stadio di Monaco in occasione della partita Germania – Ungheria.

Ma soprattutto nel momento in cui si afferma che un atleta (o una squadra) gareggia non per sé stesso ma per un astratto ideale di rappresentanza nazionale, allora si rende lo sport una questione politica perché l’atleta (o gli atleti) divengono rappresentanti del paese e delle sue prese di posizione – nonostante, e lo dico da ex atleta agonista, chi gareggia lo faccia per sé stesso, non certo per la Nazione. E certamente in questo essere rappresentanti del paese sta già una presa di posizione che svela le faglie che attraversano la società, visto ad esempio il tentennamento sull’inginocchiarsi della nazionale italiana.          

                                                                                    

L’Italia si professa un paese antirazzista – non che vi sia un passaggio preciso al riguardo nella Costituzione, ma attraverso le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – così come la FIGC e alcuni club. Pertanto inginocchiarsi sarebbe stato un gesto di coerenza dall’alto valore simbolico perché, come già detto, gli sportivi della nazionale sono investiti del ruolo di rappresentanti del Paese. Se poi pensiamo all’ovvio, che i calciatori e gli sportivi in generale sono personaggi pubblici che con le loro azioni possono essere d’esempio a chi li segue, appare ancora più evidente che la scelta di inginocchiarsi non può essere una questione «lasciata alla sensibilità» di ciascuno, come detto dal presidente della FIGC Gabriele Gravina.

Anche perché prendere posizione sul razzismo non può essere una questione di sensibilità, una scelta che riguarda l’opinione di ciascuno, perché esiste un solo modo di stare di fronte alle ingiustizie e al razzismo: essere contro di esse. Specialmente se si è i migliori giocatori di un mondo, quello del calcio, in cui dalle curve della seria A agli spalti dei campetti dei bambini agli spogliatoi il razzismo è alquanto diffuso.

Tutto il teatrino che si è mosso intorno alla possibilità di inginocchiarsi dei calciatori, oltre a smascherare l’ipocrisia di una nazionale che non vuole alienarsi le simpatie di nessuno e il razzismo presente in Italia, è una messinscena che viene installata ogni qual volta temi come il razzismo o i diritti LGBQT+ saltano fuori. Non si prende posizione, ma si discute perché, per l’appunto, si ritiene che i diritti riguardino l’ambito dell’opinione. Che altro non è che depotenziare la “minaccia” del cambiamento dello status quo, rubare la scena al dibattito serio sul razzismo sistemico per dire che «non abbiamo bisogno, noi, di questi gesti perché in fondo siamo brava gente». E così il mondo dello sport non si schiera, come successo anche in occasione di Germania – Ungheria, quando l’Uefa ha proibito allo stadio che ospitava la partita di tingersi con i colori dell’arcobaleno, simbolo dei diritti LGBQT+. Una non presa di posizione che è una vittoria di chi non vuole l’estensione dei diritti e la parità. Una non presa di posizione che è, in realtà, una presa di posizione anche perché nel caso dei calciatori italiani è equivalso a legittimare chi sostiene che il tema del razzismo riguardi la sfera personale e non quella sociale – perché le parole, l’affermare che comunque la Nazionale condanna il razzismo, non sono in questo caso sufficienti.

Pretendere che lo sport sia terreno neutro rispetto a quanto succede nel mondo è pretendere l’ipocrisia. Se infatti non credete che sia così e che i gesti simbolici nello sport non funzionino, il fatto che siete arrivati fino a questo punto dimostra il contrario. Dimostra che inginocchiarsi o alzare il pugno al cielo ha una valenza molto forte.

L’Italia avrà anche passato il turno, ma il razzismo ha segnato un goal a porta vuota.

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