Dieci del mattino, mentre sono in fila alle poste si avvicina un signore di mezza età: “scusa, sei tu l’ultimo?”. Rispondo di sì e torno a pensare ai fatti miei. Poco dopo lo stesso signore torna alla carica domandandomi: “devi fare una cosa lunga? Perché io devo fare una cosa veloce e se per te non è un problema potresti farmi passare avanti.” Rispondo che sì, effettivamente devo sbrigare una pratica che mi richiederà del tempo e gli cedo il posto, anche se dentro mi sento spazientito, non certo per averlo fatto passare avanti, ma per qualcos’altro.
Dopo aver esaurito gli argomenti a cui pensare e aver studiato ogni dettaglio dell’ufficio postale arriva finalmente il mio turno.
“Buongiorno” esordisco.
“Ciao” mi fa l’impiegata.
Spiego di che cosa ho bisogno e la signora mi dice: “devi compilare questo modulo, guarda mettiti qui di lato. Appena hai fatto mi dici e finiamo, così intanto faccio gli altri.”
La ringrazio per la sua gentilezza e inizio a compilare il modulo, ma quel qualcosa che mi irrita adesso mi innervosisce un po’ di più.
Una volta finito di compilare il modulo lo porgo all’impiegata che lo controlla e con un certo stupore mi dice: “che bravo! ti sei laureato! Sai con quei capelli lunghi e gli orecchini non lo avrei mai pensato!”
Ok, quel qualcosa che mi irrita ora ha un volto ed è questa sensazione di essere sempre trattato come un bambino solo perché sono giovane.
Non sono mai stato una persona formale, anzi le persone eccessivamente educate mi mettono a disagio – non sai mai bene se il tono della voce, quello che dici e come lo dici, la postura del corpo vanno bene. Per dirla con una battuta ho sempre preferito le osterie ai ristoranti, come ho sempre detestato il ricorso ai titoloni – “Il signor barone”, “il magnifico rettore”– perché sottolineano quella differenza di “classe”, o di potere, di cui farei volentieri a meno.
Col passare degli anni e avendo avuto la fortuna di viaggiare per l’Europa (e non solo), muovendomi in ambienti differenti, ho però capito una cosa fondamentale dell’Italia: l’uso del lei non sottolinea necessariamente una distanza di classe, o di potere, ma è quel distacco formale del “non ti conosco, rispetto la tua privacy”. Soprattutto l’uso del tu nasconde la convinzione, tutta italiana, che se sei giovane sei ancora un “ragazzino” nonostante abbia più di vent’anni (ma non ancora trenta), mi sia laureato, viva da solo, abbia lavorato e vissuto all’estero. Non mi sento un ragazzino e voglio, anzi pretendo di essere trattato con la stessa dignità di un “adulto.”
In Italia siamo abituati ad un contesto che favorisce il permanere nei luoghi di lavoro e di potere dei più anziani, a differenza del resto d’Europa dove i miei coetanei non solo se ne vanno di casa prima di noi italiani, ma vengono inseriti nel mondo del lavoro – un mondo del lavoro flessibile perché ci sono delle tutele e il contesto ti consente di cambiare professione – molto presto, appena laureati. Non sto dicendo che siamo dei bamboccioni, perché non lo siamo affatto. Come spiegare altrimenti che più della metà di noi giovani ha il coraggio di andare a vivere all’estero? E lo fa perché in Italia vige un contesto socio – politico asfissiante che non consente di programmare il futuro. Lo stesso contesto che non permette a noi giovani di andare via di casa, anche perché molti provengono da famiglie umili o comunque non molto ricche. Lo stesso contesto che tende a favorire gli “anziani”, lasciando i giovani in uno stato di bisogno, di subordinazione. Mancano le tutele e i finanziamenti che lo Stato dovrebbe assegnare in base al reddito: non si tratterebbe di assistenzialismo, ma di redistribuzione per limitare le ineguaglianze, finalizzando al reinserimento nel mondo del lavoro. Inoltre in Italia non sarai mai istruito a sufficienza e non avrai mai viaggiato abbastanza: ci sarà sempre qualcuno più vecchio di te che ne sa più di te, anche se non conosce ciò di cui sta parlando. Beggars can’t be choosers, i mendicanti non possono scegliere.
Ecco perché pretendo che mi si dia del lei e non del tu: perché non sono un “ragazzino” che ancora dipende dall’autorità dell’adulto. Io di quell’autorità non so che farmene perché ho la mia. Perché ogni volta che mi viene dato del “tu” si perpetuano quelle dinamiche di potere – mai letto Foucault? – di cui il linguaggio è foriero e che tentano di mantenermi in una posizione subordinata. Dinamiche che per di più si basano sull’aspetto, per cui se porto i capelli lunghi e gli orecchini fa strano che sia laureato – dinamiche che tendono a controllare i corpi e di cui le donne sono estremamente consapevoli perché le subiscono quotidianamente. Non sottovalutiamo queste dinamiche di potere insite nell’uso del tu: l’Italia è un paese sempre più anziano anche perché viene abbandonato da noi giovani, stanchi di non avere possibilità, di vivere in un contesto di subordinazione che si protrae a lungo durante la vita – l’economia italiana si basa infatti sulla famiglia, non sull’indipendenza – anche a causa di uno Stato che non fa ciò che dovrebbe fare, stanchi di una società chiusa alle innovazioni, ai diritti e all’Europa.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.