Dagli amici che si dimenticano all’ufficio che inoltrare una risposta importante, fino al professore universitario o al datore di lavoro: le non risposte alle email sono una prassi talmente diffusa che ci siamo passati un po’ tutti. Se sono gli amici a farlo non c’è problema: è un motivo in più per una risata, per una presa in giro. Il vero dramma è quando si tratta di lavoro o studio.

Nei miei anni universitari ho scritto centinaia di email per chiedere ai professori appuntamenti, chiarimenti dei programmi d’esame, approfondimenti. Nella maggior parte dei casi non ho avuto risposta – e spesso se l’avevo arrivava estremamente in ritardo. Dovevo quindi recarmi in dipartimento, fare la fila e parlarci. Ed ero fortunato perché non facevo il pendolare ed abitavo dietro all’Università. Ma quante volte ho rinunciato al ricevimento perché avrei perso troppo tempo in coda. Quante volte lui non si è presentato all’appuntamento – nota bene: dico sempre professore perché è evidente che nell’Università italiana c’è un gravissimo problema di genere. Le email servono a velocizzare le cose, ad evitare che si debba prendere un mezzo per andare dal professore, che si debba stare in fila. Aumentano le possibilità di uno scambio di informazioni, specialmente per chi abita lontano. Il ricevimento rimane per chi ha tempo e voglia di andarci e per tutti quegli argomenti che necessitano per forza di cose un dialogo vis à vis. Ma non è solo l’assenza di logica dietro all’atteggiamento di certi docenti universitari ad essere fastidiosa. È la maleducazione e il mancato rispetto – dell’istituzione che rappresentano, nei confronti di chi gli scrive, nei confronti dei contribuenti che pagano le tasse che servono a retribuire il loro lauto stipendio – ad essere insopportabili. Rispondere alle email dovrebbe essere parte del lavoro di un professore: si tratta di rendere conto agli studenti, perché una parte del loro mestiere implica rispondere alle domande che al giorno d’oggi avvengono anche nello scambio di posta elettronica. Ma è anche un rendere conto del proprio ruolo, dimostrare di non essere in una torre d’avorio consapevoli di ricoprire la funzione di “esperti” di cui ogni tanto anche i giornalisti hanno bisogno.

Così arriviamo ad un’ulteriore fonte di maleducazione. Non è credibile che una persona di cultura non sappia che la maggioranza dei giornalisti non è integrata nella redazione con un contratto. E i giornalisti non integrati non svolgono la loro professione solo perché amano quel che fanno e perché credono nel servizio civile che il giornalismo può rappresentare. Lo fanno perché è il loro lavoro. Allora ecco che quando una persona non risponde ad una email, che sia un professore, un dirigente d’azienda o chi vi pare, in cui l’oggetto è “Brevi domande per un articolo” la faccenda diventa ancora più fastidiosa perché chi non risponde non consente a chi scrive di lavorare, di guadagnarsi la pagnotta. Quel che si dimostra non è solo d’essere arroccati in una torre d’avorio da cui i problemi degli altri sembrano poca cosa rispetto alle grandi questioni che nelle elevate latitudini della torre vengono poste. Quel che si dimostra è di non rispettare le persone che ci circondano, di non interessarsi al loro destino: di essere indifferenti. Un atteggiamento che viene dall’essere in una posizione di potere per cui chi manda l’email è in una posizione subordinata – ha bisogno di te che rispondi – così che chi deve rispondere può decidere come un sovrano.

E se di lavoro si tratta quante email con proposte vengono inviate. Quanti curriculum, quante lettere motivazionali. Su un centinaio di email solo una decina ottiene risposta – non sto esagerando credetemi. Capisco che il lavoro di ognuno, specialmente ai piani alti, sia stressante e sottragga molto tempo. Ma una email in cui scrivere – specialmente per chi ha una segretaria o un segretario – “la ringraziamo, ma non siamo interessati” non prende tempo. Si tratta di non lasciare nel dubbio (e nella speranza) per giorni una persona in attesa di un riscontro, così che quella persona si senta libera dall’impegno e possa proporsi o proporre l’idea a qualcun altro. Perché di lavoro si tratta: se non ci fosse bisogno non si scriverebbe. Ma per l’appunto, è l’essere in uno stato di necessità che porta a scrivere. Non rispondere significa, di nuovo, disinteressarsi della condizione di chi scrive – “tanto non mi riguarda” – e mantenere quella persona in una posizione subordinata.

È una questione di cortesia, di gentilezza nei riguardi di una persona che, evidentemente, ha bisogno di te o si è interessata a te o alla tua realtà. È buona educazione sì. Ma è soprattutto non negare la dignità a chi scrive le email – centinaia di email – e non riceve quasi mai risposta. Dire «no» richiede pochi secondi, l’incertezza può invece durare settimane.

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