Giornalisti che vivono il precariato da anni, pochi fondi dedicati alle inchieste, editori spesso interessati più al sensazionalismo che alla notizia. Sono queste alcune delle ragioni per cui in Italia si sente spesso dire: «non mi fido dell’informazione e dei giornalisti perché ciò che scrivono è spesso scorretto e fazioso». Elementi cui bisogna aggiungere che, effettivamente, troppo spesso il giornalismo italiano ha fatto opera di equilibrismo con il potere, come rilevava già nel 1959 il giornalista Enzo Forcella nel celebre articolo Millecinquecento lettori sottolineando inoltre la scarsa incisività del giornalismo nella società italiana. Un atteggiamento che ha sicuramente contribuito ad alimentare la sfiducia nei confronti dei professionisti dell’informazione e a contribuire allo (storicamente) basso numero di lettori

Problemi a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri. Ma uno in particolare salta agli occhi: il proliferare di “professionisti” che tali non sono, ma che ciò nonostante affollano le pagine e i siti informazione – in questo anche aiutati da un maggior uso di collaboratori esterni alla redazione, economicamente più convenienti rispetto ad un giornalista contrattualizzato e da regole obsolete per l’accesso all’ordine. Non si tratta solamente dell’opinione (errata) che un giornalista possa occuparsi di qualunque argomento – per fare un esempio, chi si occupa di esteri non necessariamente è preparato per parlare di Medio Oriente – convinzione talvolta diffusa anche nelle redazioni e tra gli editori. È la convinzione, piuttosto, che chiunque possa fare il giornalista – perché “informarsi” è sufficiente – ad essere pericolosa e dannosa non solo per la professione, ma anche per il valore civile che l’informazione rappresenta. Difatti, parallelamente al proliferare di percorsi di studio e di master e alla crescente domanda di laureati si assiste ad una rilevante presenza di “professionisti” che o non hanno mai finito l’università o non hanno una specializzazione utile alla nostra professione. Giusto per fare degli esempi concreti: chi scrive conosce laureati in chimica e biologia che si occupano in maniera convinta, sottraendo spazio ai professionisti, di esteri e politica italiana. 

Il giornalismo non è soltanto opinione: è studio, ricerca, verifica dei fatti e delle fonti. Un lavorio costante di una materia informe che presuppone una conoscenza approfondita degli argomenti di cui si vuole parlare al fine di non scadere nell’errore e nella banalità. Credere di poter eludere anni di studio– che sono necessari a conoscere i retroscena storici, le mentalità che agiscono nella politica e nelle società, l’economia, le leggi e via dicendo – “informandosi” è un errore che disvela almeno tre false credenze sul giornalismo che, a loro volta, mostrano quanto questa professione sia delegittimata, contribuendo al contempo a squalificarla ulteriormente.

La prima tra queste credenze è che sia sufficiente leggere un certo numero di articoli per essere in grado di occuparsi di un determinato argomento. Si confonde in questo caso il meccanismo con cui si forma un’opinione con quello della ricerca e del “tenersi informati” – e così facendo molti “giornalisti” finiscono per copiare o fare dei “riassunti” di articoli stranieri e non. Di conseguenza che il giornalismo è, di fatto, un mestiere che “riassume”. Il giornalista possiede certamente la dote della sintesi, ma al contempo deve collegare i puntini, rendere comprensibile una matassa che apparentemente non lo è seguendo un evento mentre si sta svolgendo, tenendo però ben presente gli antecedenti e le mentalità. Deve saper spiegare in poche e semplici parole argomenti complessi e, per farlo, deve conoscerli a fondo. Infine una dequalificazione dello studio, quindi della conoscenza – valore fondante, ad avviso di chi scrive, del giornalismo. Se si ritiene infatti che tutti possano fare i giornalisti perché è sufficiente “informarsi” si crede anche che il conseguimento di certe lauree – lettere, storia, filosofia, economia, scienze politiche per dirne alcune – non sia necessario per comprendere il mondo che ci circonda. Internet ha facilitato enormemente l’accesso all’informazione e quindi il processo di formazione dell’opinione. Al contempo, però ha anche agevolato il proliferare della disinformazione: per muoversi nel difficile contesto della sovrapposizione da informazioni, riconoscendo per tempo le false notizie e non confondendo le “notizie” che testate straniere e non possono spacciare come vere, è necessario conoscere a fondo l’ambiente in cui ci si muove. Esempio ne è la polemica nata negli ultimi anni nei quotidiani italiani  sulla cosiddetta cancel culture sulla cancellazione di Omero e altri classici della letteratura antica dalle università inglesi e statunitensi, la quale ha coinvolto testate come Huffington Post Italia e giornalisti come Ernesto Galli della Loggia. Una falsa notizia – si trattava di accorpamenti di dipartimenti e aggiornamenti dei piani di studio – ripresa dalla maggior parte da testate come Breitbart News e The Telegraph, noti luoghi di informazione conservatori spesso accusati di aver diffuso notizie false e razziste.

Questi “professionisti” della (dis)informazione rappresentano un triplice problema: di sincerità, perché chi fa il mestiere del giornalista si pone implicitamente come figura professionale che ha determinate competenze e conoscenze; di coerenza, perché non sono coerenti con i presupposti della professione; deontologico perché non conoscendo gli argomenti di cui parlano rischiano di fare disinformazione.

Un problema che si estende ormai anche a diverse redazioni e a molti editori che per ragioni di convenienza economica legittimano la presenza di queste schiere – dannose – di professionisti della disinformazione.

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