Si addensano nubi all’orizzonte. Almeno fino alla primavera del 2022 l’economia globale sarà caratterizzata da inflazione, instabilità e rischi di crisi dalle due maggiori potenze, Stati Uniti e Cina. Con un calo, rispetto alle attese, dal 5,7% al 4,5% della crescita dell’economia globale nel 2022. Mentre l’indebitamento pubblico ha raggiunto nel 2021 il picco del 100% del Pil mondiale, con un pericoloso aumento del debito sia nei paese ricchi che poveri – tant’è che il G20 ha posticipato il pagamento dei debiti dei paesi più poveri alla fine del 2021.  

Le forti tensioni che animano la politica statunitense rischiano di minare gli sforzi di Joe Biden per la ripresa economica del Paese. A causa di un mancato accordo tra democratici e repubblicani sul tetto del debito, fino ad ottobre gli Stati Uniti hanno rischiato di dover dichiarare default. Nel braccio di ferro tra i due partiti sono stati i repubblicani a mostrarsi particolarmente rigidi, nonostante i fondi che il governo prenderebbe in prestito servirebbero per ripagare principalmente le spese dell’amministrazione Trump.

Negli Stati Uniti l’aumento del tetto del debito, la cifra massima che il governo può spendere e superata la quale il Dipartimento del Tesoro non è più autorizzato ad emettere nuovi bond, deve essere approvato dal Congresso. La legge che regola l’approvazione venne istituita nel 1917 per sfoltire il lavoro del Congresso, che altrimenti doveva approvare ogni prestito ed emissione di bond. Solitamente la votazione, che è divenuta in tempi recenti uno strumento di pressione politica da parte di uno dei due partiti, avviene ogni anno. L’amministrazione Trump approvò una sospensione nel 2019 di due anni, finita lo scorso primo agosto, ragion per cui la maggior parte delle risorse che il Congresso deve stanziare serviranno per coprire le spese della passata presidenza.

L’accordo tra i due partiti è arrivato quasi all’ultimo minuto a metà ottobre, grazie ad un passo indietro dei epubblicani. Ma la crisi non è scongiurata: l’aumento del debito che è stato approvato vale infatti solo fino al prossimo 3 dicembre, quando il Congresso sarà chiamato a votare nuovamente sulla questione. I repubblicani hanno fatto sapere che non saranno disponibili a passi indietro.

La situazione in Cina non è certo migliore. Il gigante asiatico ha infatti i piedi d’argilla. A marzo 2021 il debito aggregato di famiglie, aziende e settore pubblico superava i 46 mila miliardi di dollari, pari al 287% del Pil cinese. La fragilità dell’economia cinese, acuita dalla scarsa trasparenza del governo, la si è vista a settembre con il caso Evergrande. Prima di proseguire è bene chiarire un aspetto fondamentale: in caso di crisi cinese le ripercussioni sarebbero globali. Perlomeno dall’ingresso nella World  Trade Organization (WTO) nel 2001, la Cina è infatti un tassello fondamentale dell’economia mondiale sia per i legami con il debito statunitense, sia per i legami che ha stabilito con molti paesi dell’Asia, dell’Africa ed Europei con la Nuova Via della Seta.

Il caso Evergrande, un enorme conglomerato che si occupa di sviluppo immobiliare e che ha investimenti in molti altri settori, è inoltre la dimostrazione dei rischi che l’economia globale corre a causa della bolla di debito del mercato immobiliare cinese, mercato che contribuisce per circa il 30 per cento al prodotto interno lordo del paese.

La vicenda Evergrande è presto spiegata: il colosso si è indebitato per 300 miliardi rendendosi così la società di sviluppo immobiliare più indebitata al mondo. Lo Stato cinese non sembra voler pagare i debiti di Evergrande e questo ha fatto aumentare l’instabilità dei mercati, con notevoli perdite nei mesi di settembre e ottobre. Solo poco prima di dichiarare default il 23 ottobre l’azienda ha pagato la cedola di 83,5 milioni. Ma questa manovra ha solo tamponato la crisi di questo colosso immobiliare che ancora rischia il default.

La bolla immobiliare si affianca alla constatazione che la Cina sta registrando, dal 2019, la crescita più lenta degli ultimi trent’anni, la quale si somma al grande debito delle amministrazioni locali, delle famiglie e delle aziende

L’instabilità e i rischi per la ripresa derivano anche da un possibile aumento dell’inflazione, dovuto in parte all’aumento dei prezzi dell’energia che si è osservato negli ultimi mesi.

Dopo un periodo di sensibile rallentamento dovuto alla pandemia, le attività produttive hanno ripreso determinando un rapido aumento della domanda per le materie prime, difficili da reperire a causa di problemi di disponibilità e trasporto. Questi problemi hanno interessato anche le materie prime con cui si produce la maggior parte dell’energia in Europa: il prezzo del petrolio è aumentato del 200% dalla primavera del 2020, e quello del gas naturale del 30 per cento solo nel secondo trimestre del 2021.

L’Europa, inoltre, ha una forte dipendenza dalle forniture della Russia, che in questo periodo ha ridotto i flussi a vantaggio dei paesi asiatici. Alcuni problemi nei giacimenti del Mare del Nord hanno, inoltre, reso disponibili meno quantità di gas prodotto direttamente in Europa e il progressivo esaurimento di uno dei più importanti giacimenti nei Paesi Bassi ha aggravato la situazione.

Un ulteriore fattore è il sensibile aumento dei prezzi dei permessi per emettere anidride carbonica che le aziende si scambiano attraverso l’Emission trading system europeo. Questi permessi sono rilasciati dalle autorità europee in numero limitato e vengono poi scambiati tra le aziende.

Tra le ragioni che spiegano l’aumento del prezzo della benzina è il mancato accordo tra i Paesi dell’Opec sull’aumento della produzione di greggio. I principali produttori di petrolio non sono infatti riusciti a trovare un accordo comune. Gli Emirati Arabi avevano chiesto di poter aumentare la loro produzione, rivedendo così gli accordi sui tagli che tutti i Paesi devono rispettare. Diversi membri dell’Opec, tra cui l’Arabia Saudita, hanno però respinto la richiesta.

L’aumento delle materie prime grava sulle bollette, riducendo così il potere d’acquisto dei consumatori che vedono ridurre il proprio il reddito. Quello della benzina, tra le altre cose, concorre ad aumentare le spese di spedizione, quindi i prezzi dei prodotti, diminuendo così il potere d’acquisto, generando inflazione.

L’aumento dei prezzi dei prodotti è dovuto inoltre ad una grave crisi dei commerci su scala globale – i cui effetti li vedremo già a Natale, con un aumento dei prezzi per i regali. Alcuni effetti si sono visti tra settembre e ottobre, quando nel Regno Unito mancava la benzina perché non si trovavano autotrasportatori che la portassero ai distributori. L’assenza degli autotrasportatori è dovuta alla Brexit: la maggior parte di loro sono infatti europei e decine di migliaia di loro avevano lasciato il paese dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea per le regole piuttosto stringenti sull’emissione dei visti. Il rischio è che questa crisi vada ad aumentare il prezzo delle merci provenienti dal Regno Unito, il cui costo era già aumentato a causa della Brexit. Più in generale, nei paesi del G20 esiste un grave problema legato alle infrastrutture: gli investimenti sono così carenti che si stima non siano in grado di coprire i bisogni stimati da qui al 2040, contribuendo così a rallentare la ripresa economica.

Il rallentamento dei commerci è dovuto a vari fattori, non da ultimo l’incagliamento della Evergreen nel canale di Suez a marzo che ha rallentato i commerci globali a tal punto che solo ora si sta tornando alla normalità.

L’80 % del commercio mondiale passa dal mare, aiutato in questo da politiche che per anni hanno visto costi convenienti e un trasporto affidabile che ha consentito alle aziende di spostare la produzione nei paesi con la manodopera a basso costo. Nel 2020 la domanda di beni è aumentata rispetto alla capacità delle aziende di soddisfarla, inceppando così il sistema. Sistema che a sua volta subisce forti rallentamenti a causa della pandemia da Covid – 19 e che ha comportato la chiusura temporanea di importanti porti per container o la diminuzione del personale a disposizione, provocando ingorghi al di fuori dei porti. È accaduto a settembre nel porto di Los Angeles e ad agosto al porto di Ningbo, il terzo porta container più grande al mondo, quando a causa di un focolaio le autorità cinesi hanno dovuto chiudere un terminal dalla capacità di 10 milioni di container. Problemi acuiti dal fatto che molte delle nuovi navi portacontainer, ordinate prima della pandemia, non sono state ancora consegnate e arriveranno solo nel 2022, ma anche per la scarsità di container, molti dei quali fermi in luoghi dove non ve ne è bisogno.

Come se ciò non bastasse anche il trasporto aereo ha rallentato a causa del covid e una sua normalizzazione la si avrà probabilmente solo nel 2024.

Problemi nella fornitura significano non solo scarsità di beni, ma anche dei materiali necessari alla costruzione di molti oggetti che usiamo – come i computer o i cellulari, la cui produzione è stata rallentata a causa della carenza di hardware – ed in generale un aumento dei prezzi in tutta la filiera.

L’instabilità sta durando più di quanto inizialmente in molti si aspettassero ed è aggravata dal fatto che le difficoltà nella distribuzione diminuiranno solamente con il rallentamento dell’economia: un cane che si morde la coda. Le conseguenze sono spesso tagli alla produzione, licenziamenti e il ricorso alla cassa integrazione che non solo vanno ad indebolire il reddito e la qualità della vita di una grossa fascia della popolazione, ma anche a diminuirne il potere d’acquisto. Per la prima volta in vent’anni la povertà è in crescita a livello globale: sono almeno 97 milioni di persone in più a vivere nella povertà assoluta. Tra chi ne risente maggiormente sono le fasce della popolazione che percepivano già prima un reddito basso e la classe media, così come le donne.

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