Il 3 ottobre è stata un giornata densa di risultati elettorali negli Stati Uniti: si è votato in Virginia e New Jersey per eleggere il governatore, mentre a Minneapolis, Buffalo, New York e Boston si votava per il sindaco – a cui bisogna aggiungere delle elezioni suppletive per il Congresso e delle votazioni per la Camera dei Rappresentanti della Virginia. Un voto fondamentale per i democratici e il presidente Joe Biden perché ha reso l’idea dell’erosione dei consensi nei suburbs, del calo di partecipazione tra le donne, le minoranze e i giovani: voti fondamentali nell’elezione di Joe Biden l’anno scorso e che testimoniano la scarsa capacità del Partito democratico nel mobilitare l’elettorato, perlomeno a questa tornata elettorale. Il basso tasso di popolarità di Joe Biden, al 43%; la scontentezza per i litigi tra l’ala progressista e moderata dei democratici – si pensi alle discussioni per l’approvazione del piano di investimenti di Biden e l’ostruzionismo di Joe Manchin e Christine Sinema; leggi statali per le elezioni – non esiste una legge federale in materia – che là dove governano i repubblicani sono sempre più spesso riscritte per restringere il diritto di voto dell’elettorato democratico. Non da ultimo strategie elettorali che non funzionano. È il caso, ad esempio, del candidato democratico Terry McAuliffe per il seggio da governatore della Virginia che ha incentrato la propria campagna elettorale come se il voto per lo sfidante Glenn Youngkin fosse un voto per Donald Trump, rendendo di fatto l’elezione un referendum sull’ex presidente. Youngkin non ha preso completamente le distanze da Trump, ma è un moderato, ha puntato molto sugli indipendenti riuscendo a tenere insieme gli elettori rurali e gli elettori bianchi delle zone suburbane. Soprattutto non ha tirato in ballo il Tycoon preferendo parlare di tematiche locali. Una strategia che ha pagato perché è riuscito a vincere un’elezione che fino a poche settimane fa era data in mano ai democratici, riportando alla vittoria il GOP in questo stato dopo 12 anni. La lezione da trarre è che ora che Trump non è alla Casa Bianca, focalizzare il dibattito su di lui non mobilita necessariamente l’elettorato. Una lezione amara perché la Virginia da anni si stava spostando in direzione favorevole ai democratici e alle elezioni dell’anno scorso Biden qui ha vinto di 10 punti.
In New Jersey i democratici riescono a vincere un’elezione che fino all’ultimo è stata too close to call. Il vantaggio di Phil Murphy sullo sfidante repubblicano Jack Ciatarelli è stato infatti minimo, ma qualcosa da festeggiare c’è: per la prima volta dal 1977 i democratici hanno rieletto il governatore in New Jersey, stato dove i repubblicani sono competitivi a livello statale. Del resto i repubblicani avrebbero guadagnato diverse decine di seggi nell’assemblea statale del New Jersey, dove prima c’era una forte maggioranza democratica. Anche in questo caso si può dire che aver lasciato un po’ da parte Donald Trump ha aiutato i repubblicani segno che le faccende elettorali e la trumpizzazione del Grand Old Party, perlomeno a livello locale, è più complessa di quel che si tende a pensare.
Per quel che riguarda le principali città il dato da trarre è più complesso. A New York vince la (scontata) contesa il democratico moderato Eric Adams, secondo sindaco afroamericano nella storia della città. A Boston, invece, viene eletta la prima donna e la prima persona non bianca come sindaca: la progressista Michelle Wu, di origini taiwanesi. A Buffalo le elezioni sono state vinte da Byron Brown, centrista che dopo aver perso le primarie democratiche contro la socialista India Walton ha vinto le elezioni come write – in candidate, cioè un candidato che è eleggibile anche se il suo nome non è presente nella scheda elettorale.
A Minneapolis, la città di George Floyd, il sindaco uscente, Jacob Frey ottiene un ottimo primo risultato; viene, inoltre, bocciato il referendum sulla “abolizione” del Dipartimento di polizia – una riforma che avrebbe ridotto i poteri dei poliziotti e rimodulato profondamente i loro compiti.
Il commento
Negli Stati Uniti le elezioni locali (da quelle per le cariche statali a quelle per le cariche elettive della contea) sono state generalmente un terreno poco “federalizzato”, elezioni cioè in cui contava maggiormente che si parlasse di quel che riguarda il territorio più che la politica federale. Questo perché gli Stati Uniti sono un paese in cui vi è un forte – e talvolta conflittuale – intreccio tra dinamiche locali e federali, ragion per cui nonostante tutto la dimensione locale è importante, anche per il semplice fatto che con un sistema maggioritario i senatori devono rendere conto al proprio elettorato. E ciò ha consentito (e consente tutt’ora) di vedere politici come Bernie Sanders, “socialisti”, eletti in stati come il Vermont dove non necessariamente il voto va al Partito democratico. Col passare del tempo e l’acuirsi della divisione tra elettorato democratico e repubblicano anche le elezioni locali hanno finito per essere terreno di battaglia su temi (e personaggi) della politica federale. Un processo in cui gioca un fattore fondamentale: che gli Stati Uniti sono uno Stato federale e, pertanto, i singoli stati hanno ampie e diversificate competenze in varie materie e i governatori, così come i congressi, locali possono influenzare il processo con cui vengono recepite e applicate le norme federali. Detta in altri termini: vista la forte divisione – se non contrapposizione – tra alcune fasce dell’elettorato, le tematiche federali sono anche e necessariamente locali e viceversa. Anche perché su certi temi – come l’assicurazione medica – negli Stati Uniti vi è un consenso quasi trasversale. Dunque avere un governo che non sembra incisivo quanto le attese e un Partito democratico litigioso al suo interno al punto da inceppare o rallentare l’approvazione di misure importanti e necessarie non solo per il paese, ma anche per la mobilitazione dell’elettorato, rende difficoltosa ogni competizione elettorale e getta un’ombra sulle prossime midterm.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.