Da qualche giorno è uscito nelle sale il nuovo film di Gabriele Mainetti, già regista di Lo chiamavano Jeeg Robot (2015). Freaks Out, ambientato in un’immaginifica Roma durante l’occupazione nazista, è la storia di un gruppo di quattro artisti circensi con dei poteri speciali. Il Cencio (Pietro Castellitto) è un giovane che riesce a comandare a proprio piacimento gli insetti; Fulvio (Claudio Santamaria) una sorta di “Chewbacca”,dotato di una forza straordinaria ma totalmente ricoperto di peli; Mario (Giancarlo Martini) è invece un nano magnete, con il potere quindi di attirare su di sé gli oggetti di metallo. Infine la protagonista, Matilde (Aurora Giovinazzo), che ancora non riesce a controllare il suo potere e ne è tremendamente spaventata: ogni persona che la tocca prende la scossa e se si arrabbia diventa di fuoco. Questa sorta di fantastici quattro nostrani sono guidati da Israel (Giorgio Tirabassi), direttore della compagnia, catturato dai nazisti all’inizio del film. In seguito all’arresto il gruppo, nonostante l’opposizione di Matilde, si separa ed inizia così la classica storia che vede contrapporsi il bene ed il male, con il già visto pazzo cattivo (Franz Rogowski) che vorrebbe prendere il controllo del mondo sfruttando i poteri altrui, e l’eroe (Matilde) che rifiuta il proprio ruolo e il proprio potere fino al finale catartico dove, finalmente, scenderà a patti con la propria natura. Il tutto condito con una notevole dose di violenza gratuita, priva di ogni significato e connessione con la struttura narrativa del film. Ma soprattutto un maschilismo neanche troppo velato e numerosi luoghi comuni da “maschio alfa”.

Contrariamente a quel che apparentemente si può credere, infatti, il fatto che ad essere protagonista sia una donna non significa che essa sia un modello di emancipazione o di parità tra i sessi. Matilde ha come unica famiglia il suo gruppo circense e vede in Israel suo padre, che cerca disperatamente per tutto il film – mentre il fatto che ci siano i nazisti e che vadano sconfitti non sembra interessarla, anzi, la vittoria finale su di loro sembra quasi un risultato collaterale della rabbia che prova dopo la morte del padre adottivo. Una ricerca durante la quale Matilde tenta disperatamente di mantenere unito il gruppo, custodendo il messaggio di unità e speranza di Israel. In pratica, l’eroina non vuole essere realmente una donna emancipata, quanto piuttosto rimanere sotto l’autorità dell’uomo (Israel) – e di fatto riuscendoci fidanzandosi, alla fine del film, con Cencio. È il modello delle mater familias, presente in Italia sin dal Risorgimento così come anche in altre realtà nazionali: donne che custodiscono e tramandano la tradizione divenendo con la loro esemplarietà il punto di equilibrio e di solidità della famiglia. In questo modello la donna può avere un ruolo attivo, ma come si vede è comprimario all’uomo. Se si ha in mente il quadro di Delacroix La libertà che guida il popolo si avrà chiaro il discorso. Nella tela Marianna mostra la strada, quella della rivoluzione, ma ad agire sono solamente gli uomini.

All’interno del film Matilde è colei che mostra agli uomini la strada, colei che custodisce il messaggio di Israel e che rappresenta, pertanto, il punto di equilibrio nella compagnia, peraltro composta da uomini irruenti e picchiatori – sempre secondo una certa narrazione maschilista. Matilde, inoltre, negli spettacoli della compagnia ha il ruolo di ballerina: si torna allo stereotipo che la donna è sinonimo di grazia e bellezza a differenza della forza bruta di Fulvio, della leggerezza di Cencio, della stupidità di Mario.

Nell’epopea che affronta Matilde, inoltre, non vi sono mai situazioni in cui una donna è al comando. Quando incontra i partigiani, descritti peraltro come meri e sciocchi uomini violenti, l’autorità è quella maschile. Vi è una partigiana che dialoga con il comandante, ma a lei spetta il ruolo di madre surrogata di Matilde: quando viene picchiata e quando è triste è lei che la consola e l’accudisce. È lei che rappresenta, all’interno del gruppo partigiano, il punto di equilibrio e di stabilità rispetto all’irruenza degli uomini. Così come l’amante (Anna Tenta) del pazzo cattivo che lo segue fedelmente ovunque vada e qualunque cosa faccia, precipitandosi a curarlo e ad accudirlo appena è necessario.

Anche i compagni di Matilde sono un repertorio dello stereotipo del maschio alfa. Con una delle sue prime battute Cencio esordisce così «io con trecento lire mi scopo tutte le mejo mignotte de Roma pe n’anno». Segue, poco dopo, una scena in cui mette con le spalle al muro Matilde costringendola a baciarlo. Mentre in un’altra scena una donna con un seno prosperoso gli fa il bagno e lui cerca insistentemente di toccarla, nonostante lei gli scosti ripetutamente le mani. Ma il messaggio che passa è che è il solito, simpatico burlone. Il “ma sono solo ragazzi”, nonostante si tratti di molestie. Per non parlare di Mario che non riesce a smettere di masturbarsi o di Fulvio, ripreso durante un rapporto sessuale nella posa del maschio dominante.

Un coacervo di stereotipi, atti non scusabili e situazioni in cui la donna, inevitabilmente, ricade sotto l’autorità maschile, in cui neanche il messaggio finale del film riesce là dove l’intento appariva più chiaro: che la diversità (dei protagonisti) sia un fatto normale, accettabile. Perché per essere normali i “fantastici quattro” devono essere fenomeni da baraccone, accettare (loro) il fatto di essere radicalmente diversi – non quindi la società che li accetta per come sono.

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