La minaccia di invasione russa dell’Ucraina è, effettivamente, uno dei momenti di maggior tensione degli ultimi trent’anni. Anche se non è possibile rispondere con certezza alla domanda: Putin manderà le proprie truppe a marciare verso Kiev? Così come non è possibile definire con certezza ciò che accadrebbe se questa ipotesi si avverasse – la storia, quella del futuro, è pur sempre il regno della misura dell’inatteso – è comunque possibile provare a delineare alcuni possibili scenari.
Una prima considerazione che è possibile trarre riguarda l’Europa. Si sente spesso dire che una guerra in Ucraina sarebbe una guerra in Europa o alle sue porte. Ciò che si nota, innanzitutto, è che ormai l’Europa viene concepita come un’entità ampia, il cui confine non è più la Germania, che comprende ormai l’estremo Est, con l’eccezione della Bielorussia. Ma ciò che sembra essere debole è la memoria storica del fatto che in Europa i conflitti non sono finiti con la seconda guerra mondiale: dagli accordi dei governi d’Irlanda e del Regno Unito con l’IRA a quelli dei governi spagnoli e francesi con l’ETA, senza trascurare i conflitti nella ex Jugoslavia sono molte le situazioni di guerra o tensione sopite recentemente, nell’arco degli ultimi vent’anni. Anzi, la situazione in Bosnia Erzegovina, dove il leader dei nazionalisti serbi Milorad Dodik parla di secessione dello Stato bosniaco, rende conto del fragile equilibrio già alle porte del Mar Ionio.
Nessuno in Europa spera in un conflitto armato che sarebbe osteggiato dall’opinione pubblica. Discorso diverso riguarda le ex repubbliche sovietiche, le Repubbliche Baltiche, o paesi nella sfera dell’Urss, come la Polonia, che temono ritorsioni anche nei loro confronti, soprattutto se si “lasciasse fare” Putin. Nel caso la Russia decidesse di inviare le proprie truppe in Ucraina, molti paesi dell’est Europa vedrebbero la minaccia di un’invasione del proprio territorio divenire sempre più concreta. Pertanto è preferibile cercare rassicurazioni di carattere diplomatico le quali, è bene non dimenticarlo, non escludono la deterrenza della forza militare che è, anzi, strumento fondamentale nella diplomazia. La NATO, in caso di invasione, si troverebbe in una posizione complessa. L’Ucraina non è all’interno dell’alleanza atlantica, quindi una sua invasione non comporterebbe l’intervento militare in sua difesa degli Stati aderenti. D’altro canto chi potrebbe richiedere l’intervento della NATO sono proprio le ex repubbliche sovietiche, ma non è detto, anzi è improbabile, che i paesi membri rispondano in maniera unitaria e affermativa a questa richiesta, con il rischio così di indebolire l’alleanza.
Riguardo l’Unione Europea le considerazioni si richiamano direttamente agli obiettivi russi.
Per Mosca l’Ucraina non è solo rilevante da un punto di vista strategico, ma è fondamentale per la retorica nazional-patriottica cui Putin si è richiamato in questi anni per consolidare il proprio potere. L’Ucraina, nel discorso patriottico russo, è considerata il primo nucleo dal quale sarebbe poi nata la Russia moderna. Pertanto è un tassello fondamentale sia nella propaganda, sia nella creazione del consenso attraverso la rilettura politica della storia operata da Putin in questi anni.
Strategicamente puntare i piedi sull’Ucraina, che vorrebbe entrare nella NATO e che si è sempre più avvicinata all’Ovest, è per Putin mandare un messaggio alla propria controparte riguardo il mantenere delle zone di “influenza”. Ciò è, di nuovo, dovuto anche ad esigenze di propaganda e consenso interni alla Federazione Russa, ma ha una valenza molto forte anche nel consesso internazionale. È una risposta al senso di accerchiamento che Mosca prova di fronte alla all’espansionismo dell’Europa e della NATO verso Est, della Cina ai confini meridionali (ma anche Europei) con la costruzione della Nuova Via della Seta e con la dichiarazione di Pechino che si considera potenza semi-artica.
Tutto questo mostra i piedi di argilla della Russia. Nonostante il peso militare sia nettamente a favore del Cremlino, la retorica nazional-patriottica di cui si diceva ha come conseguenza l’avvicinarsi pericolosamente ad uno scontro armato che non sarebbe economicamente sostenibile per la Federazione visto il non ottimo stato delle finanze. Elementi cui si possono aggiungere le incertezze che riguardano il dilemma per la successione di Putin, ipotesi tutt’altro che futuribile, e delle spinte centrifughe presenti in alcune aree del paese.
Per securizzarsi il Cremlino è riuscito a riconvertire l’eredità sovietica orientando i propri sforzi nell’arena internazionale cercando di rafforzarsi all’interno del paese, quindi con risultati spendibili per la propaganda, e ottenendo leve negoziali e di pressione nei confronti dell’Europa e, quindi, degli Stati Uniti.
Perlomeno dal 2014 la Russia è presente militarmente, diplomaticamente ed economicamente in Africa e in parte del Medio Oriente. In particolar modo la Russia investe là dove erano i paesi che erano nell’orbita sovietica: Siria, dove ha riacquisito il controllo di porti strategici che, assieme a quelli della Crimea, le garantiscono l’accesso sul mare “caldo”; Libia, dove è presente con i mercenari del gruppo Wagner; diversi paesi africani e in particolare l’area dello Sahel con il controllo, che sta di fatto acquisendo in questi mesi, del Mali. In questo modo Mosca è riuscita a capitalizzare vecchie alleanze e simpatie, riportando nella propria orbita paesi che erano in quella sovietica: un risultato che si spende bene nella propaganda e che crea un ciclo economico virtuoso per gli oligarchi russi e ha il pregio, inoltre, di contenere l’avanzata di Pechino in Africa. Soprattutto il controllo dello Sahel è vitale per l’Europa. Da un lato esso consente di controllare i flussi migratori – come si è visto nel contenzioso tra Bielorussia e Polonia circa i migranti fermi al confine tra i due paesi, i profughi sono purtroppo un’arma diplomatica. Dall’altro pone in prima linea nella lotta contro il terrorismo islamico. Il contrasto allo jihadismo è riconvertibile nella propaganda, interna alla Russia e rivolta all’esterno, perché pone “dal lato giusto della storia”. Ciò ha, inoltre, una valenza securitaria vista la presenza di insorgenze jihadiste ai confini della Federazione e negli Stati cuscinetto. E, di nuovo, consente di acquisire una leva negoziale o di pressione nei confronti di Europa, Stati Uniti e Cina. Mosca spera di ottenere questi risultati creando un ampio fronte di lotta contro l’ISIS che includa i talebani, al – Qaeda, storicamente vicina ai primi, e soprattutto i gruppi qaedisti presenti in Africa. Il continente è infatti considerato l’ultima frontiera dello jihadismo globale. Questa strategia “disciplinerebbe” al-Qaeda, depotenziandone, perlomeno per la Russia, la minaccia, cercando al contempo di sconfiggere ISIS.
Se questo è il modo con cui Mosca è riuscita in parte a rompere il senso di accerchiamento di cui si diceva, è anche il bacino di risposte che riguardano gli interessi dell’Europa. In caso di guerra in Ucraina l’Unione sarebbe in netto svantaggio perché la Russia esercita un forte controllo sui flussi migratori ed è centrale nel contrasto al terrorismo. Inoltre l’Europa è dipendente dalle forniture di gas russo e, nonostante i tentativi di ottenere rassicurazioni dal Qatar da parte di Biden, questo dossier è estremamente rilevante e, in parte, motiva la volontà di proseguire nelle trattative della Germania. Motivazioni cui bisogna aggiungere, inoltre, che per Macron la descalation sarebbe un risultato spendibile in vista delle imminenti elezioni presidenziali.
In questo scenario gli Stati Uniti non possono mostrarsi deboli rispetto alle minacce poste dalla Federazione Russa, anche perché l’ostilità verso Mosca è uno dei pochi argomenti bipartisan nell’elettorato e in Congresso. Ben pochi, dall’altra parte dell’Atlantico, sono favorevoli ad un intervento delle truppe statunitensi e lo dimostrano le discussioni di questi giorni al Congresso, dove democratici e repubblicani sono d’accordo sulle sanzioni da imporre alla Russia. Ciò che divide è la tipologia di sanzioni. È di pochi giorni fa, ad esempio, la proposta promossa dal senatore del Texas Ted Cruz per delle sanzioni che avrebbero riguardato il gasdotto che porta gas in Europa, bocciata perché le sanzioni avrebbero colpito principalmente gli alleati europei. Accordo sembra trovarlo una proposta per affidare a Biden il potere di stipulare più facilmente accordi con l’Ucraina in caso di invasione, al fine di accelerare la consegna dell’equipaggiamento militare. Neanche per Biden, comunque, una guerra in Ucraina sarebbe uno scenario ottimale perché l’invasione sarebbe vista come un insuccesso e potrebbe aiutare i repubblicani alle mid-term di novembre. Del resto le motivazioni sulla contrarietà dell’Europa e della NATO ad un conflitto riguardano anche gli Stati Uniti e Joe Biden il quale vorrebbe orientare maggiormente l’azione della sua amministrazione al contenimento della Cina. Proprio Pechino, del resto, trae vantaggio da questa situazione. Se anche per la Repubblica Popolare un conflitto non è tra le ipotesi migliori per ragioni economico-commerciali, la tensione tra Mosca, Kiev, Washington e le cancellerie europee sposta l’attenzione dall’azione cinese in vari dossier ed è inoltre un’occasione per misurare fino a che punto la retorica di questi paesi combacia con le azioni concrete.
Quel che è possibile aggiungere, avviandosi verso le conclusioni, è che vista la forza di deterrenza nucleare di Russia e Stati Uniti il conflitto ucraino non dovrebbe portare ad uno scontro aperto tra potenze. Piuttosto, l’Ucraina potrebbe essere la Siria d’Europa: uno Stato in cui viene combattuta una guerra di procura per il controllo sull’influenza nella regione. Ma ciò a cui sembra aspirare Putin sono rassicurazioni, che siano esplicite o implicite, e il riconoscimento dello status di potenza. La vera discussione riguarda questi aspetti, nonostante comunque il rischio di una escalation rimanga alto. Una situazione che, comunque, dovrebbe far riflettere sulla posizione dell’Europa sulla Russia: includere o rendere maggiormente partecipe Mosca nell’ambito euro-atlantico potrebbe essere un fattore di “esportazione” indiretta dei diritti, uno strumento di pressione. Ma soprattutto renderebbe più docile il Cremlino, separandolo da Pechino. Era questo in parte l’obiettivo del famoso reset che accompagnò il pivot to Asia della prima amministrazione Obama. Speranze tradite dal Cremlino con le interferenze nelle elezioni, l’invasione della Crimea e del Don Bass nel 2014, tra le altre, e che mostrano ancora una volta i piedi d’argilla di questa ormai ex potenza che, proprio per questa constatazione, rende il tutto più imprevedibile.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.