Dietro la crisi ucraina ci sono molte questioni. Tra queste, la “crisi” di legittimità avvertita dalla Federazione Russa rispetto alla propria postura internazionale: ciò che potremo definire il dilemma della riconversione del potere – la ridefinizione, cioè, del proprio status rispetto alle mutazioni del contesto internazionale – che prende avvio con la fine dell’Unione Sovietica nel dicembre del 1991. All’interno di questo discorso lo jihadismo è particolarmente esemplificativo.

Lo Jihadismo è una di quelle questioni che nascono e si sviluppano sotto la Guerra Fredda e che proprio tale cornice contribuì a non far deflagrare fino al 1991. Perlomeno dal 1979, quando l’Urss invase l’Afghanistan iniziando una guerra decennale che si concluse solamente nel 1989, ad oggi lo jihadismo ha incrociato più volte la storia dell’Unione Sovietica e della Russia, si pensi ad esempio alle due guerre cecene (1994 – 1996; 1999 – 2009). Ad oggi tale minaccia riguarda anche il potenziale disgregativo della Federazione Russa, innestandosi sulle istanze indipendentiste e regionaliste presenti in alcune regioni, come il Tatarstan. Un problema che riguarda anche molti degli Stati cuscinetto della Russia, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Pertanto, combattere lo jihadismo è per Mosca fondamentale al fine di securizzare i propri confini e rafforzare il controllo sulle regioni interne, ma anche per questioni di propaganda. Partecipare alla guerra al terrore pone, infatti, dalla “parte giusta della storia.” Non a caso, all’indomani della dichiarazione di guerra al terrore da parte di Bush nel 2001, Putin si premurò di farvi rientrare anche la seconda guerra in Cecenia. La guerra al terrore può così essere sfruttata sia per la propaganda interna che estera: nel primo caso legandosi al più ampio discorso patriottico promosso da Putin di “ricostruzione dell’impero” che coinvolge anche una riscrittura della storia in senso, per l’appunto, patriottico; il secondo rientra nella più ampia strategia di destabilizzazione o influenza delle democrazie occidentali.

Generalmente Mosca interviene “massicciamente” e/o militarmente orientandosi verso gli Stati che erano nell’orbita sovietica, come la Siria e il Mali, solitamente ricorrendo al gruppo Wagner – una compagnia militare privata nelle mani dell’oligarca Evgenij Prigozhin, che consente un coinvolgimento militare indiretto. Ciò rappresenta anche un uso “efficiente” delle proprie forze, dovuto alla consapevolezza delle ridotte capacità rispetto all’epoca sovietica. Difatti orientarsi verso paesi come la Siria e il Mali, che sono inoltre strategici a livello regionale, permette di trovare (o ritrovare) con facilità dei legami o contattisi pensi, ad esempio, che diversi esponenti del governo di Bamako si sono formati nelle scuole militari sovietiche.

Dal 2014 la Russia è presente militarmente con i miliziani del gruppo Wagner, ma anche economicamente e diplomaticamente, in diversi paesi africani a testimonianza che il ritorno nel continente è centrale nella sua strategia. In particolare il controllo del Mali e dello Sahel sembrano essere al centro delle attenzioni del Cremlino. Con Bamako Mosca ha siglato due accordi per la cooperazione per la difesa, nel 1994 e nel 2019. Recentemente, dopo il ritiro di Parigi dovuto anche a frizioni diplomatiche tra il governo francese e maliano, la Russia sembra aver acquisito una notevole influenza sul Mali, così come sul Burkina Faso in seguito al colpo di Stato di gennaio.

Varie sono le ragioni che spiegano l’interesse russo per il continente africano. Vi è certamente la necessità di allargare il bacino di voti favorevole alle Nazioni Unite. Ma soprattutto sono due gli obiettivi del Cremlino. Primo di essi è contrastare l’espansionismo cinese in Africa. Pechino sta infatti investendo molto, anche militarmente, nel continente anche in relazione alla Nuova Via della Seta. Nonostante la presenza di interessi convergenti tra i due paesi, sono molti i dossier su cui le due diplomazie divergono perché per Mosca una Cina che si espande rappresenta una minaccia, così come per Pechino una Russia che si rafforza rappresenta un problema. Tra i vari dossier: questioni di confine; l’Artico in cui la Cina vuole giocare un ruolo di primo piano; ma soprattutto il controllo sugli Stati cuscinetto o comunque rimasti, dopo il crollo dell’Urss, nella sfera di influenza russa ed in cui Pechino sta investendo – e guadagnando un controllo economico, dunque politico – grazie alla Nuova Via della Seta. Per Mosca, in tal senso, il rischio è quello di essere marginalizzata anche nel cortile domestico, sentendosi accerchiata su più fronti dalla Cina. Riacquisire il controllo di paesi come il Mali è quindi fondamentale per la securizzazione della Russia.

Il Mali è, inoltre, necessario per stabilizzare la regione dello Sahel. Ciò consentirebbe non solo di contenere la Cina, ma anche di acquisire uno strumento di pressione nei confronti dell’Unione Europea, essendo lo Sahel fondamentale per il controllo dei flussi migratori e di traffici illeciti. In questo modo il Cremlino potrebbe esercitare delle pressioni su Bruxelles e sulle cancellerie europee, rafforzando la propria posizione, ad esempio, nei dossier sulla Bielorussia e l’Ucraina – distogliendo, inoltre, le attenzioni su quel che accade all’interno dei propri confini. Una vittoria spendibile nella propaganda: la Russia riesce là dove gli occidentali falliscono, discorso declinabile anche nella sfera della ricostruzione dell’impero, potendo così ben vendere il risultato all’estero e nei propri confini per rafforzare l’immagine di Putin. Ed è questo il secondo obiettivo del Cremlino.

Lo Sahel consentirebbe, inoltre, di guadagnare un’ottima postazione nella guerra al terrore. L’Africa è considerata il nuovo fronte dello jihadismo globale, pertanto controllare una fascia regionale molto ampia e strategica è, in tal senso, fondamentale. Anche in questo caso Mosca otterrebbe uno strumento di propaganda – l’essere “dalla parte giusta della storia”– indebolendo, al contempo, le insorgenze jihadiste nei propri confini o nelle sue vicinanze. Va letto in tal senso il tentativo di avvicinarsi ai Talebani, testimoniato dal summit di Mosca di ottobre e le pressioni che sembra Mosca stia esercitando nei confronti di Bamako per un dialogo con il Gruppo a Sostegno dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), forza considerata vicina ad al – Qaeda. Il Cremlino costruirebbe così un ampio fronte di lotta contro lo Stato Islamico che avrebbe anche il vantaggio di integrare nella propria sfera i Talebani e i qaedisti, acquisendo un’ulteriore strumento di pressione nei confronti dell’Europa, della Cina e degli Stati Uniti, securizzando i propri confini.

Se questa sembra essere la strategia di riconversione del potere degli elementi di instabilità permangono. Alcuni riguardano la stabilità della Federazione stessa, tra cui la fragilità economica e la povertà diffusa e il dilemma della successione di Putin. Altri il senso di accerchiamento che Mosca può provare e che comporta un elemento di imprevedibilità nelle possibili risposte del Cremlino. Ai suoi confini, infatti, ha l’Europa e la NATO, insorgenze jihadiste e la Cina sta andando a minacciare anche l’unico confine che fino ad ora era il più difendibile: l’Artico. Elementi di instabilità che mostrano comunque come la politica estera russa tenda a muoversi ancora con pragmatismo, di fatto non alleandosi mai con nessuno, preferendo la compartimentazione delle alleanze, cioè la scelta di determinati dossier su cui collaborare, confrontandosi per il controllo delle influenze che, nel contesto descritto, è per il Cremlino fondamentale per rafforzarsi riconvertendo il proprio potere. Una riconversione che si colloca, così, nel più ampio quadro di ridefinizione degli equilibri globali usciti dalla Guerra Fredda.

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