Sono state tante, in questi anni, le avvisaglie di una possibile guerra in Ucraina. Come molti erano i segnali dell’espansionismo russo.

Sfruttando il gruppo Wagner – agenzia di contractor di proprietà dell’oligarca Evgenij Prigozhin, molto vicino a Vladimir Putin – che consente un coinvolgimento militare indiretto Mosca si è impegnata su più fronti: la Siria, la Libia, lo Sahel e altre zone d’Africa dove, di fatto, la presenza francese (ed europea) è stata sostituita con quella russa. A gennaio, dopo il colpo di Stato in Burkina Faso e dopo l’espulsione dell’ambasciatore francese dal Mali in questi paesi venivano bruciate le bandiere europee: segno che l’Europa sta sottovalutando un rancore nei suoi confronti, spesso alimentato dalla propaganda russa. In tutti questi paesi l’Europa e gli Stati Uniti si sono confrontati, indirettamente sul piano militare e in maniera più diretta su quello diplomatico, con la Russia. Mosca, negli anni, non ha mai smesso di mettere in atto una politica estera muscolare, rivendicando dagli anni Novanta in poi territori ritenuti parte della Russia. L’arco di instabilità, in tal senso, è molto ampio. La Georgia, dove si sono già combattute delle guerre: nel 1991 e nel 2008 per il controllo dell’Ossezia del Sud e, sempre nel 2008, in Abcasia. La Transnistria, regione Moldava confinante con l’Ucraina che dal 1991 si proclama territorio russo e dove Mosca mantiene delle guarnigioni. Nagorno Karabak, regione dell’Azerbaijan controllata dall’Armenia, dove si è combattuto nel 2020. Soprattutto è stata sottovalutata la crisi siriana: banco di prova delle capacità di risposta occidentali – capacità che con l’Ucraina hanno dimostrato ben altro piglio – e di guerra.

Aree di crisi irrisolte per l’inerzia, l’incapacità e l’inattivismo delle cancellerie europee e statunitensi che hanno optato per soluzioni tampone per non mettere a rischio la stabilità, nella convinzione che una soluzione si sarebbe trovata o che il Cremlino non avrebbe mai esasperato i toni creando una vera e propria crisi. Sottovalutazioni che sono avvenute nonostante le avvisaglie provenienti dai paesi dell’Est e dai Baltici, ma che hanno riguardato diverse segnalazioni di sconfinamenti aerei e di sommergibili russi in Svezia e Finlandia. Crisi irrisolte come quella ucraina, nata nel 2014 con l’annessione della Crimea e parte del Donbass che si è proclamato autonomo – prima della guerra le milizie filo russe non controllavano tutto il territorio. Questo nonostante Euromaidan, con i suoi morti e i suoi feriti, sia stata una rivolta europeista e democratica: in piazza sventolavano le bandiere dell’Unione Europea.

Se questo è solamente parte del passato il presente, su cui si possono fare le valutazioni riguardo il futuro, non appare certamente meno problematico. L’invasione dell’Ucraina sta già avendo un impatto sulla ripresa economica post – covid. Lo iniziamo a percepire sull’andamento dei prezzi del gas e della benzina. Aspetti che, comunque, non devono far venire meno il nostro supporto all’Ucraina. La Russia è infatti il primo esportatore di gas al mondo. L’Europa acquista circa tre quarti del gas russo, rendendosi così il suo principale compratore. Pertanto non è solo l’Europa ad essere dipendente dal gas russo: è anche la Russia ad essere dipendente dall’Europa. Se l’Europa può diventare gradualmente meno dipendente dal gas russo, altrettanto non si può dire per la Russia: neanche con gli aiuti della Cina i conti russi verrebbero riequilibrati. Proprio Pechino potrebbe essere il mediatore della crisi certificando quello che molti analisti sostengono: che la regione dove guardare è l’Indo – Pacifico, come del resto dimostra il pivot to Asia di Barack Obama – la scelta di dare priorità, nella politica estera statunitense, al quadro Asia – Pacifico – e l’intenzione di Joe Biden di arginare l’avanzata cinese. Se la Cina dovesse riuscire ad essere il mediatore necessario per la soluzione della crisi lo si spiegherà sì con il peso che il Dragone ha acquisito, ma anche con il fatto che Pechino è più prossima a Mosca rispetto a Washington. Una vicinanza che non significa alleanza: i dossier su cui Russia e Cina divergono sono molti, tra cui proprio la guerra in Ucraina. Ma anche il Mediterraneo, area di investimenti cinesi e di penetrazione russa. La Crimea è un ponte verso il Mediterraneo e i porti siriani di cui Mosca ha il controllo, così come per la Libia. La Cina viene spesso considerata come un’alternativa agli Stati Uniti, paese quest’ultimo verso cui tutte le cancellerie continuano comunque a guardare, pur se con un mutato atteggiamento rispetto al passato. La crisi ucraina, in tal senso, ha reso più evidenti i quadri di ridefinizione macro regionale che stavano muovendosi dalla fine della Guerra Fredda, creando multipolarità rispetto alla lettura dualistica che ancora si tende spesso a fare delle relazioni internazionali.

All’interno di questo scenario bisognerebbe riflettere sul ruolo di Boris Johnson e del Regno Unito. Il primo ministro inglese dialoga spesso con i Baltici e con il gruppo dei paesi Visegrad e si sente quotidianamente con Volodymyr Zelensky. Che cosa ciò comporterà sulle relazioni future di alcuni paesi membri dell’Unione Europea e per un possibile ruolo di Londra nel Mar Baltico e nell’Est Europa è argomento di discussione. Non bisogna comunque dimenticare la vicinanza maggiore del Regno Unito agli Stati Uniti dopo la Brexit e il desiderio di Washington di delegare agli europei, pur mantenendo un bilanciamento delle forze, per dedicarsi all’Indo-Pacifico. Rimanendo nell’Est Europa quali saranno le conseguenze di anni di avvertimenti caduti nel vuoto, della minaccia russa che si è fatta ora più credibile? Tra la Lituania e la Polonia vi è Kaliningrad, enclave russa in Europa, che attraverso il Suwalki gap potrebbe collegarsi con la Bielorussia. I momenti di crisi e in cui si avverte un senso di minaccia sono terreno fertile per le recrudescenze nazionalistiche e le derive illiberali, così come la possibilità che queste situazioni vengano alimentate anche attraverso un sentimento antieuropeo perché “ci hanno lasciati soli”. L’Unione Europea ebbe una spinta, nelle sue fasi iniziali, anche dalla constatazione di Francia e Regno Unito di non poter essere più delle potenze globali, ma macro potenze regionali con capacità e aspirazioni di proiezione globali. La crisi di Suez – che peraltro ci rimanda alla minaccia nucleare – del 1956 fu emblematica della necessità di un polo aggregatore che supplisse alle carenze delle vecchie potenze europee. In tal senso il sentimento antieuropeo non metterebbe necessariamente a rischio l’Unione, ma potrebbe arrestarne o complicarne il processo federale, già di per sé difficile, creando comunque un problema di natura democratica, del resto già presente se pensiamo alla Polonia e all’Ungheria.

Cambiamenti che investono anche la sfera dei conflitti e della sicurezza globale: la guerra in Ucraina mostra i nuovi scenari di guerra nucleare. Da un lato è la possibilità di “trasformare” le centrali in armi nucleari, bombardandole e mettendone in crisi la sicurezza. Dall’altro, se la minaccia dell’uso dell’atomica non è una novità neanche dopo fine della Guerra Fredda, la minaccia riguardo l’atomica da parte di Mosca crea un precedente, innestandosi sulla dimostrazione che uno scontro tra Russia e NATO o USA è possibile – in tal senso, una possibile ridefinizione della dottrina nucleare. Scontro che con la guerra in Ucraina è arrivato all’essere una realtà, come dimostra il barometro nucleare, fermo a cento secondi dall’Apocalisse.

Gli scenari sulla Russia, infine, sono molteplici: da un indebolimento della leadership di Putin – già si parlava, comunque, del dilemma della successione – e a una sua possibile destituzione che non necessariamente apre scenari migliori là dove questa creasse una situazione di caos nel paese con il più grande arsenale nucleare al mondo; come del resto non è detto che Putin venga sostituito con un sostenitore della democrazia, anche perché la continuità tra Unione Sovietica, nelle leggi e nelle istituzioni, è un problema di non poco conto. Russia che appare più isolata, ma che riafferma la sua potenza militare. Una potenza che intimorisce perché rispetto alla possibilità di una soluzione della guerra con l’annessione del Donbass e il riconoscimento dell’annessione della Crimea il sentimento comune sembra essere un “speriamo che si accontenti”. E certamente, l’Ucraina che non entra nella NATO, ipotesi che è sempre stata estremamente futuribile, ma che potrebbe entrare nell’Unione Europea apre nuovi scenari sull’Europa unita e sul suo rapporto con la Russia, testimoniato anche dalle richieste di adesione di Moldavia e Georgia.

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