Dopo la sfiducia generata dalla presidenza di Donald Trump e il ritiro frettoloso e mal gestito dall’Afghanistan e la crisi dei sottomarini nucleari all’Australia di Joe Biden ha ottenuto un grande successo condividendo informazioni sull’invasione dell’Ucraina per tempo con gli alleati, riuscendo così a creare una risposta forte e coesa rispetto alle mosse del Cremlino.
Dopo quasi un anno alla guida degli Stati Uniti, molti nei sondaggi sostenevano di preferire il presidente russo Vladimir Putin al suo omologo statunitense Donald Trump. Che Trump generasse sfiducia lo si era capito sin da subito: mentre Barack Obama lasciava l’ufficio ovale con tassi di approvazione nel mondo molto alti (con punte anche del 76%), le stesse rivelazioni evidenziavano la diffidenza che aleggiava intorno al nuovo inquilino della Casa Bianca. Si può dire, con una piccola semplificazione, che la presidenza Trump ha, da un lato, legittimato i leader autocratici nel mondo; dall’altro ha indebolito l’immagine e il soft power statunitense, favorendo quello degli avversari (Cina, Russia, ecc.). Del resto la prestigiosa rivista di politica internazionale Foreign Policy già nel 2018, un anno prima rispetto alla dichiarazione di “morte celebrale” del presidente francese Emmanuel Macron, sentenziava l’imminente fine della NATO.
L’inizio della presidenza Biden, sottolineavano i sondaggi, ha lasciato intravedere un miglioramento dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Una possibilità che non venne colta dal presidente degli Stati Uniti visti la già menzionata gestione del ritiro dall’Afghanistan e la vicenda dei sottomarini all’Australia. Sebbene vi siano dei repubblicani, come Madison Cawthorn, rappresentante del Partito repubblicano alla Camera dei Rappresentanti per la Carolina del Nord, o lo stesso ex presidente Trump, che sostengono un’immagine favorevole della Russia e di Putin, gli Stati Uniti sembrano avere riconquistato perlomeno parte della fiducia e del ruolo di leadership nel mondo. Nonostante le discussioni intorno alla NATO, questa non appare più in “morte celebrale” e il suo ruolo e la sua utilità sembrano oggi aver trovato una nuova ragion d’essere. È, come si accennava, un successo di Joe Biden e della sua diplomazia, della sua capacità di saper creare una vasta coalizione e di guidarla. La centralità degli Stati Uniti nel mondo non può essere quindi discussa, né tantomeno quella della Cina. Diverso il discorso sulla Russia, di cui bisogna però non sottostimare il potere acquisito in Africa e parte del Medio Oriente, regioni dove ha saputo allargare la propria sfera di influenza. Considerazione cui bisogna aggiungere la constatazione circa la capacità di Mosca di accedere a molteplici canali di comunicazione che possono influenzare la percezione dei vari problemi nei media globali. Con la guerra in Ucraina vi è stata, infatti, una parziale riconversione delle teorie del complotto dalla pandemia alla guerra. In questi anni abbiamo visto l’abilità della Russia nella diffusione di false notizie, poi fatte proprie dai complottisti dei vari paesi – chi segue gli Stati Uniti conosce il giornalista di Fox News Tucker Carlson, noto per le sue posizioni estremiste e complottiste. Sin dall’invasione Putin ha sfruttato queste teorie legandole, come spesso succede, all’antisemitismo, all’omofobia e alla misoginia. Un esempio di falsa notizia fu il caso della donna incinta salvata dalle macerie dell’ospedale di Mariupol, accusata dalla macchina della disinformazione russa di essere un’influencer. All’inizio dell’invasione, invece, Putin affermava che in Ucraina vi fossero nazisti e drogati, spostando poi l’attenzione della sua macchina della disinformazione sulla falsa notizia circa la presenza di laboratori chimici in Ucraina. Successivamente Hillary Clinton è stata inserita nella lista delle sanzioni russe, senza motivo visto che non ha più incarichi ufficiali. Anche se a ben vedere un motivo c’è e riguarda il fatto che nell’ambiente complottista vicino a Trump Clinton viene considerata la guida di una setta di pedofili che vorrebbe controllare il mondo – forse vi ricordate quando in campagna elettorale Trump postò la foto dell’ex Segretario di Stato corredandola con una stella di Davide.
Dalla coesione della risposta euro-atlantica all’invasione dell’Ucraina passava (e continua a passare) anche un messaggio alla Cina su Taiwan. Ciò ha trovato conferma nel fatto che sia al vertice di Roma del 15 marzo, sia nel colloquio tra Biden e Xi Jinping ieri l’argomento era tra i principali. Segno di una rinnovata diplomazia, ma anche di leadership statunitense e forse di un nuovo indirizzo della diplomazia con l’Unione Europea forse verso una direzione maggiormente proattiva, più vicina a integrazioni e politiche comuni. Anche se il rischio di un’invasione cinese di Taiwan non è scongiurato, sicuramente vi è un margine maggiore rispetto al passato per il dialogo relativo ad una macro regione, l’Asia Pacifico, che è una vera e propria polveriera.
Proprio con il summit virtuale del 18 marzo tra Xi Jinping e Biden il soft power dei rispettivi paesi si è rafforzato certificando la leadership globale di Washington e Pechino. In tal senso, come si diceva, Biden ha rimesso in discussione il declino dell’era Trump. Il soft power include consenso intorno alla cultura di un paese (e in questo gli Stati Uniti sono ineguagliabili), ai valori (e se pensiamo alla stabilità, al rispetto dei confini, alla pace nel mondo e alla crescita economica Cina e USA si trovano, almeno a parole, d’accordo) e alla politica se è considerata come inclusiva e/o legittima. Aspetto, quest’ultimo, che risulta evidente nel summit del 18 marzo perché entrambe le leadership sono ormai considerate legittime e aspirano a creare dei poli d’inclusione. In tal senso il confronto tra Washington, Pechino e, in una certa misura, Mosca è una guerra di influenze, di informazioni: di soft power. Una battaglia d’immagini e di significati per la supremazia nel ruolo di leadership globale. Un testa a testa che racchiude in sé questioni essenziali per le aspirazioni delle democrazie occidentali (i diritti LGBQT+ e delle donne, la tutela delle minoranze, il diritto all’aborto e via dicendo) in quanto il primo terreno di battaglia è proprio quello domestico, identificabile ad esempio nelle guerre culturali che attraversano gli Stati Uniti. Temi e battaglie che coinvolgono direttamente anche l’Europa e ciò che essa rappresenta per quella parte della comunità ucraina che chiede l’adesione all’Unione in nome di una società più inclusiva e multiculturale. Istanze proprie anche di chi oggi in Russia protesta contro la guerra e la presidenza di Vladimir Putin o di chi dalla Federazione decide di fuggire.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.