Da tempo parte della sinistra è incapace di attuare una lettura critica del passato e del presente per dare slancio all’impazienza per il futuro. In tal senso, la sinistra non è più una forza alternativa. La fine delle grandi narrazioni, impostasi perlomeno con il crollo dell’Unione Sovietica, ha collocato l’orizzonte del possibile nella prospettiva della contingenza. Non essendovi alternative, essendo questo il migliore dei mondi possibili, la storia è finita, riducendo così le capacità e le possibilità di sviluppo del pensiero critico. Non potrebbe essere altrimenti, del resto: se infatti la Storia è incessante ripetersi e il nuovo una variazione sul tema, la critica non ha spazio, così come il pensiero, a differenza del cinismo e del disinteresse, dunque il nichilismo e l’accettazione passiva. L’azione si colloca pertanto all’interno di un canone da cui, tramite le capacità tecniche, è necessario massimizzare il profitto. Migliorare le condizioni non è cambiarle, ma amministrarle muovendosi all’interno di uno schema che non può essere messo in discussione. Il neoliberismo cela la sua natura ideologica presentandosi come realtà, spazzando via ogni possibile pensiero alternativo. Al centro della sua ideologia è il lavoro. Pertanto, come si vedrà, essere di sinistra oggi è riappropriarsi della questione del lavoro, non solo risemantizzandolo e ripensandolo concettualmente, ma ricollocandolo al centro dello sforzo idealistico e nella quotidianità.

L’ascesa della borghesia nella prima modernità fece del lavoro il centro della propria ideologia, fonte di legittimazione nei confronti dei ceti che sul non essere produttivi fondavano il proprio potere politico. Il lavoro divenne ambito di contesa ideologica, di potere e quindi di collocazione sociale, ma anche etica di una classe, la borghesia, e poi di tutta la società. Con una rottura rispetto al passato, nella modernità il lavoro diventò un criterio di inclusione anziché di esclusione, come fondamento della proprietà privata (Locke), come fondamento del wealth of nation (Smith), come momento di liberazione formale dell’uomo dalla immediatezza dei bisogni nella società civile (Hegel). Quindi, pur senza perdere i propri caratteri di necessità, sulla base del nuovo rapporto tra sapere e tecnica attuato dallo sperimentalismo scientifico, il lavoro acquisì un rilievo ed una centralità prima sconosciuti, giungendo nel XIX e XX secolo ad avere una concettualizzazione nel significato generale della libertà attraverso il lavoro. [1] 

Il lavoro è diventato così il centro di un’utopia che ricerca la concretizzazione della società migliore in cui il soddisfacimento di determinate condizioni materiali, le quali consentono di accedere ai beni di consumo, determinano la realizzazione personale e sociale.[2] Detto in altri termini, più il successo sul lavoro è riconosciuto – in qualunque ambito, anche quello più “basso” – più è grande la nobilitazione che esso porta nella vita. La grande trasformazione del capitalismo, da cui trae la sua legittimazione ideologica, sta quindi nell’idea di una vita liberamente scelta partendo dal lavoro, ma che garantisce l’accesso al lusso che era un tempo appannaggio delle classi nobiliari

Il successo lavorativo coincide così con la libertà perché il lavoro è oggetto del volere e della conoscenza umana. Pertanto il lavoro è il quadro utopico della società perfetta e la sua realizzazione la si misura nella libertà o meno del tipo di vita condotto dall’individuo. Secondo questa prospettiva, pertanto, il lavoro è portatore della libertà del lavoro – cioè che il lavoro è una forma di liberazione dell’uomo. Allo stesso tempo, però, il sistema riduce la libertà nel lavoro perché non è più un’attività libera, ma estremamente disciplinata anche se può apparire fluida, essendo centrale il concetto di produttività. Ciò lo si giustifica perché si ritiene che il lavoro garantisca una forma di libertà dal lavoro, cioè a partire dalla professione, e allo stesso tempo si dice che il lavoro è sempre più a misura d’uomo. Quest’ultima è una costante perlomeno dal taylorismo, che già suggeriva che i propri criteri scientifici fossero, in quanto “scientifici”, i migliori per l’individuo.[3]

In base a quanto detto, il lavoro è ciò che definisce l’uomo e il posto che occupa all’interno della società la quale è, a sua volta, definita dal ruolo accordato al lavoro. Pertanto l’individuo vive in una contraddittoria ricerca della libertà che lo porta a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere.

Nel processo ideologico è la tecnica a giocare un ruolo decisivo, poiché essa garantisce un’alta percentuale di successo e di efficienza lavorativa. Detto in altri termini, la tecnica è centrale perché possiede la capacità di trasformare un insieme di informazioni in una forma di conoscenza che garantisce il massimo profitto in maniera ripetibile, economica e veloce.[4] Il potere, pertanto, è nella disponibilità di informazioni e nella capacità di trasformarle in conoscenza.[5] E per rendere ancora più sicuro il successo, ma anche per far fronte all’enorme mole di informazioni, si richiede un elevato livello di specializzazione. Quindi la conoscenza è ciò che è utile, cioè ciò che consente di avere un determinato effetto che potremo definire come efficiente.[6] Il sapere è così valutato in base alla sua utilità e alla sua inutilità.

L’ideologia del lavoro, che sorregge quella più ampia del sistema socio – economico, è un’ideologia gerarchica e antigerarchica. Vi sono vari livelli di specializzazione che non necessariamente dipendono dalla catena di comando, ma dalle mansioni – una sorta di orizzontalità. È ovvio che comunque vi è un centro di controllo a cui i subordinati devono rispondere. Ma ciò che è centrale è la parvenza di fluidità, di vivere in un contesto lavorativo accogliente, con orari di lavoro flessibili e a scelta ma che di fatto estendono, permeando la quotidianità, l’orario di lavoro ed in cui è il team a decidere. Ecco perché è un’ideologia antigerarchica, ma al contempo foriera di gerarchia, dunque di disciplinamento.[7] Se il lavoro è la vita dell’individuo egli allora dovrà essere sempre pronto, sempre preparato, vivere per esso. Dunque disciplinato. La grande vittoria di questa ideologia è aver responsabilizzato ogni individuo facendogli credere di essere necessario al funzionamento del sistema che, così, ha parcellizzato le istanze di controllo. Ognuno di noi, in questo modo, esercita una forma di controllo indiretta e non detta, espressa nei moduli valutativi, sull’operato degli altri. Così che la conformità e l’efficienza siano garantite. È un’evoluzione storica, questa, dei principi scientifici del lavoro: la speranza di Taylor, allora, era che il lavoratore divenisse foriero di disciplina e di buon comportamento non solo durante l’orario di lavoro, ma anche al di fuori.[8] Nessuno è escluso dalla disciplina e dall’ideologia del lavoro: è un sistema omnipervasivo che riguarda tutti, pur se con  debite differenze di accesso a determinati luoghi, beni e istruzione. Con differenze che riguardano il genere e l’orientamento sessuale, così come il colore della pelle. Differenze che riguardano le condizioni materiali e, di conseguenza, esistenziali degli individui.

L’apparenza di una società giusta, tendente al bene, assorbe e concentra sulla propria ideologia gli sforzi e le speranze di ogni classe sociale. Una società totale in cui l’alienazione e la definizione del proprio sé coinvolgono ogni individuo che per definire la propria esistenza sacrifica la propria vita al successo lavorativo, simbolo della vocazione realizzata, chiave di accesso ad un benessere materiale che altrimenti non avrebbe ma che allo stesso tempo non può godersi pienamente. La dimensione stessa dello studio, un tempo fondata sul sapere, costruisce sé stessa sulla conoscenza, cioè sull’insieme di nozioni volte a parcellizzare il sapere, a disperderlo e dividerlo, creando una classe omogenea e diffusa di tecnici che rinunciano alla globalità del sapere, alla sua inutilità. L’inutile è ciò che il potere definisce come tale, pertanto è spesso identificato come il pericoloso, il sovversivo.[9]Sapere è potere perché è la capacità, nonostante la mancata conoscenza di ogni dettaglio o particolare, di comprendere le cose nella loro globalità: è l’arte del pensare in quanto tale, del riflettere senza necessariamente produrre profitto. La logica del lavoro necessita che ognuno scelga una formazione, non un pensiero. Pertanto la sinistra dovrebbe tornare ad un pensiero inutile. La storia mostrerebbe che vi sono delle alternative, che essa non è finita. Partendo da tale constatazione e dall’osservazione del presente la sinistra potrebbe proporre nuove forme di narrazione in quanto raccontare non è solo conoscere e rielaborare, ma è anche presentare un’alternativa che, in quanto tale, si configurerebbe come forma di resistenza rispetto ai problemi delineati in queste righe. Pertanto essere di sinistra oggi è mettere in questione la centralità del lavoro nella società e nella vita dell’individuo recuperando la capacità di raccontare e, dunque, resistere.


[1] Cfr.: Karl Polanyi, La Grande Trasformazione, Torino, Einaudi, 2010 (ed. or. 1944); Giovanni Mari (a cura di), Libertà, sviluppo, lavoro, Milano, Mondadori, 2004.

[2] Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965 (prima ed. or. 1904-1905).

[3] Frederick Taylor, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Franco Angeli Editore, 1975.

[4] Cfr.: Michel Foucault, Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975; Alfredo Salsano, Ingegneri e politici, Torino, Einaudi, 1987.

[5] Cfr.:Robert A. Dahl, The Concept of Power, “Behavioral Science”, Vol. 2, N.3, luglio 1957; John Kenneth Galbraith, Il nuovo stato industriale, Torino, Einaudi, 1967; Foucault, Surveiller et punir cit.

[6] Foucault, Surveiller et punir cit.

[7] Ibid.

[8] Taylor, Principi di organizzazione scientifica cit.                                                                  

[9] Michel Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.

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