Potrebbe sembrare un dibattito tra addetti ai lavori ed in parte lo è. Ma ciò che è al centro di questo dibattito riguarda tutti perché chiama in causa il presentismo – la tendenza ad appiattire la dimensione storica sull’oggi –, la problematica posizione del pensiero critico e della razionalità, spesso accantonante in favore di risposte emozionali e antiscientifiche. Perché il dibattito nato in seno all’American Historical Association (AHA) ed estesosi in parte anche al di fuori degli Stati Uniti riguarda molti problemi della ricerca che sono anche problemi politici e delle nostre società

Gli antefatti, in breve

Il 17 agosto James H. Sweet, presidente della AHA, ha pubblicato sulla colonna mensile che spetta al suo ruolo il saggio Is History History? Identity Politics and Teologies of the Present in cui, prendendo spunto da un ammonimento della storica Lynn Hunt pubblicato nella stessa rubrica nel 2002mette in guardia i suoi colleghi dallo schiacciare la ricerca storica sul presente, piegandosi così alle immediate esigenze politiche, ma anche perdendo le specificità che la contraddistinguono dalle altre scienze socialiI rischi sono, infatti, perdere di vista la metodologia storica, che è ciò che ne garantisce la scientificità: non solo il necessario distacco – sia in termini emotivi ed emozionali che politici – ma soprattutto analizzare il passato non con il linguaggio e le strutture dell’epoca ma con quelle di oggi – ciò che in gergo si definisce anacronismo. Sweet ha criticato sia la “destra” – ha portato come esempio, in particolare, le recenti sentenze della Corte Suprema che hanno spesso fatto ricorso alla “storia” per giustificare le proprie decisioni – che la “sinistra” perché la tendenza a dover parlare o non parlare di certe tematiche o in certi termini è comune un po’ ovunque, là dove l’ambito di ricerca non dovrebbe esserne influenzato. Sweet ha toccato temi caldi, caldissimi, soprattutto negli Stati Uniti perché ha chiamato in causa anche gli studi sul genere, le tematiche razziali, il capitalismo e il nazionalismo, provocando un’ondata di polemiche che lo hanno portato a scrivere una sorta di apologia che è stata pubblicata all’inizio del saggio. Questo nonostante Sweet non abbia criticato l’attenzione che è assolutamente dovuta a certe tematiche e a certi linguaggi – anzi, a leggere bene il saggio è l’esatto contrario – , ma si sia limitato a criticare una tendenza della ricerca che rischia di essere anacronistica. 

Fine degli antefatti

Come storico non posso che condividere le parole di Sweet. Per quanto l’accademia e la società statunitense abbiano le loro peculiarità, ciò da cui il presidente della AHA mette in guardia è un problema che riguarda anche il mondo accademico e la società italiana e, credo lo si possa affermare, anche europea

Perlomeno in Italia vi è, effettivamente, una tendenza di mercato accademico che favorisce determinate tematiche. Che tende anche a criticare certe letture che, lungi dall’essere razziste o sessiste – perché, comunque, di presentismo si tratterebbe – che vanno apparentemente controcorrente rispetto a certe “regole” informali che vengono imposte nelle Università, portando la produzione scientifica ad essere schiacciata sul presenteUn presente che è troppo spesso determinato dall’allocazione di fondi per la ricerca sempre più scarsi, in special modo per gli studi storici. Ciò fa sì che si debba parlare di temi “caldi” seguendo una certa vulgata, così che ciò che viene reputato “improduttivo”, minoritario rispetto a molti altri studi va perso. Una ricerca che è sempre più conservatrice è una ricerca che si avvita su sé stessa e che non va da nessuna parte. Contrariamente a ciò che alcuni dei critici di Sweet possono pensare, questo tipo di ricerca rafforza le dinamiche di potere esistenti. E questo è, effettivamente, tutto il contrario di ciò che la ricerca dovrebbe essere perché la ricerca per essere utile alla collettività non dovrebbe servire nessun utile. Dovrebbe essere, insomma, inutile perché non determinata dalle logiche dell’oggi – che non vuol dire non riconoscere che le domande che poniamo alla ricerca provengono dalle sollecitazioni del presente. 

Del resto, l’imposizione delle tematiche e del linguaggio è un’imposizione metodologica che è in contrasto con la libertà della ricerca. Sweet, giustamente, non solo critica la necessità di parlare necessariamente di certe tematiche, ma anche l’uso del linguaggio. La metodologia storica, infatti, consiglia l’uso del linguaggio dell’epoca, non quello contemporaneo. Un consiglio che viene spesso disatteso. 

Sono problemi che riguardano gli storici ma anche i non storici e che svelano quanto la politica arrivi nelle Università e determini, in una certa misura, i suoi risultati. Del resto, lo storico– ritenuto colui che “conosce” il passato” e che pertanto fornisce “legittimazione” al regime discorsivo che si vorrebbe far valere – è un oggetto di contesa. Ma lo storico dovrebbe saperlo: la cautela metodologica che ci contraddistingue è un ammonimento anche in tal senso. Un avvertimento al non sovrapporre passato e presente che è spesso disatteso anche perché, come nota Sweet, diversi storici si prestano a giochi editoriali o rimangono abbagliati dalle “luci della ribalta” dei social. Ciò non vuol dire che lo storico debba essere assente, ma che quando si parla da storici (professionalmente, per intenderci) si dovrebbe, ad esempio, evitare di parlare con certezza di quel che accadrà nel futuro (che rimane la misura dell’inatteso) sfruttando l’aura di referenzialità che conferisce l’etichetta di essere storici. Un chiaro problema deontologico che squalifica non solo gli storici in questione, ma anche l’intera professione. Ciò per due motivi principali: si rende la storiografia al servizio di un fine che, se non è politico, è quanto meno economico e, in quella misura, viziato cascando così in quello che – almeno un tempo, quando ero ancora studente-  si insegna essere il peccato mortale dello storico: l’anacronismo. Peccato mortale perché non solo svaluta i risultati della ricerca, ma apre le porte alla contesa politica. Ed è questo un problema molto grande, molto importante che coinvolge tutti noi perché va al di là della storiografia come disciplina e chiama in causa la messa in crisi della razionalità, del laicismo e della scienza – non in quanto tale, ma del suo ruolo nella società e della credibilità che i non addetti hanno di lei, quel che si chiama pensiero antiscientifico, cioè ciò che confonde l’opinione con lo studio dello specialista, l’ambito politico con l’ambito della ricerca – a favore di risposte emozionali, antiscientifiche, spesso teleologiche.  

Vorrei concludere rubando le conclusioni dall’intervento di Sweet che, a mio parere, sono un monito e un messaggio che può essere condiviso non solo dagli storci, ma anche dai non addetti ai lavori

“Doing history with integrity requires us to interpret elements of the past not through the optics of the present but within the worlds of our historical actors. Historical questions often emanate out of present concerns, but the past interrupts, challenges, and contradicts the present in unpredictable ways. History is not a heuristic tool for the articulation of an ideal imagined future. Rather, it is a way to study the messy, uneven process of change over time. When we foreshorten or shape history to justify rather than inform contemporary political positions, we not only undermine the discipline but threaten its very integrity.”

“Fare storiografia con integrità ci richiede di interpretare gli elementi del passato non attraverso le lenti del presente, ma all’interno dei mondi dei nostri attori storici. Le domande che poniamo alla storia spesso derivano dalle preoccupazioni del presente, ma il passato irrompe, sfida e contraddice il presente in maniere imprevedibili. La storia non è uno strumento euristico per l’articolazione di un ideale e immaginato futuro. Piuttosto, è un modo per studiare il processo disorientato e irregolare di cambiamento nel tempo. Quando accorciamo o plasmiamo la storia per giustificare piuttosto che informare le posizioni politiche contemporanee, non solo miniamo la disciplina, ma ne minacciamo la stessa integrità.”

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