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Attribuire la vittoria di Giorgia Meloni e della destra alle politiche di domenica scorsa all’ignoranza e all’irrazionalità degli elettori non servirà a sconfiggere la destra nel futuro prossimo, né a contrastare le sue pretese. Sarebbe, inoltre, una presa di posizione che non tiene di conto dell’elevata astensione, non dovuta certo solamente al disinteresse, ma anche ad un senso di disaffezione, delusione e non rappresentanza legati proprio a quella presa di posizione acritica e poco “identitaria” dei partiti di sinistra – nella misura in cui molti lamentano poca identità di sinistra in questo campo politico. Non solo: anche la destra è capace di essere razionale e, se volete, anche poco ignorante. Non dobbiamo sottovalutare l’avversario. Anche perché ciò a cui siamo di fronte è, piuttosto, uno scontro di modernità in cui parte del problema è che la destra sa quale è la sua visione di modernità, mentre a sinistra questa è frammentata e divisa sia in diverse formazioni spesso avverse tra di loro, sia perché effettivamente manca una spinta innovativa e propulsiva che sia capace di superare i retaggi della vecchia sinistra in nome di una nuova sinistra più ancorata al presente e al futuro.
All’interno di questo contesto sono presenti molteplici questioni che riguardano il legame tra locale e globale che è imprescindibile non solo perché a sinistra pensiamo all’integrazione (o dovremo farlo), ma perché il cambiamento climatico, il potere delle multinazionali, l’avanzata delle destre nel mondo, l’antisemitismo, il razzismo, il web e la stessa natura del capitalismo – solo per fare alcuni esempi – sono elementi transnazionali, globali. La destra, come la sinistra, non sono questioni nazionali, quindi, ma globali. Lo vediamo con l’ascesa di una destra estrema in molti Paesi europei – non è necessario vincere, ma influenzare e spostare le agende e il linguaggio, mobilitando, che è diverso da rappresentare la maggioranza, più degli avversari – ma anche negli Stati Uniti dell’elezione di Donald Trump e oggi del Partito repubblicano che continua ad esprimere posizioni a dire poco estremiste e intolleranti. In questo contesto dobbiamo tenere di conto che ogni vittoria della destra è un fertilizzante per altri paesi dove ancora non è salita al governo. Ed è un pericolo per l’integrazione europeaperché, al di là delle divergenze economiche che contrappongono, ad esempio, Italia e Ungheria (sono pur sempre nazionalisti), le destre potranno imporre una svolta nelle politiche di cessione di sovranità, così come potranno imporre agende conservatrici a livello continentale.
Un’altra dimensione transnazionale dell’ascesa dell’estrema destra riguarda il non aver fatto “i conti con il passato”, perlomeno in Europa, soprattutto quella occidentale – non dimentichiamoci che in Spagna, Portogallo e Grecia fino agli anni Settanta erano ancora al potere dei regimi fascisti. Ma in generale, dovremo interrogarci sulle continuità non solo istituzionali con i passati regimi (anche ad Est), ma delle mentalità e delle modalità governative, così come delle mentalità sociali – cioè delle persone. Pensiamo all’antisemitismo, ma in generale alla chiusura rispetto all’altro delle dittature fasciste, e ci renderemo conto che non è solo un problema di Italia e Germania, per quanto qui abbia assunto delle responsabilità gravissime, ma europeo. E questo ci dirà molto sull’ascesa dell’ultradestra.
Parte dell’ascesa, si diceva, è dovuta anche all’assenza di autocritica non solo a sinistra, ma anche in tutto lo spettro politico, compreso quello “liberale” derivata dalla convinzione che la “storia è finita” e che viviamo nel migliore dei mondi possibili perché “non ci sono alternative”. Un atteggiamento che si poneva come razionale e intellettuale, quando riposava semplicemente su un atto di fede: la storia, infatti, non è mai finita. Ma soprattutto, un distacco dalla “massa”, dal “popolo” ignorante e rozzo che deve capire. Un atteggiamento miope e poco razionale (o istruito) che non capiva che non è possibile leggere la storia come una freccia, come una direttrice a senso unico del progresso. Pensare, cioè, la storia moderna dalla nascita dell’Illuminismo ad oggi come una progressiva conquista della razionalità. Con l’Illuminismo e la razionalità settecentesca nasce, infatti, anche la critica alla pretesa di misurare tutto entro i confini della razionalità. Dividersi, anche negli studi, in campi partigiani non conduce da nessuna parte. Preferibile sarebbe guardare ai percorsi di razionalità e a come questa si inserisce nella modernità, perché anche il Nazismo nel funzionamento dei campi, ad esempio, fu estremamente razionale. Quando Kant si interrogava sui limiti della razionalità, non lo faceva casualmente: l’eccesso di razionalità può portare alla brutalità, proprio perché la razionalità non coincide con il giusto, ma può adattarsi alle diverse morali politiche di riferimento.
È, quindi, un confronto tra modernità che fino agli anni Novanta rimaneva adombrato dall’allora più ampio confronto tra visioni di modernità rappresentato dalla Guerra Fredda, ma che già allora non solo era in nuce, ma si sviluppava. Non solo nelle continuità con i fascismi in Europa, ma anche con lo sviluppo di una destra sempre più vicina ad istanze non liberali quali la critica all’aborto, ai diritti, all’integrazione, alla parità tra uomo e donna e che spesso si legava alla proposizione del primato bianco occidentale. Se uniamo questi punticon l’incapacità dello spettro politico di rendersi conto che la storia non era finita, che non aveva vinto un modello di modernità perché nella Storia è sempre presente la molteplicità, la resistenza, l’incontro e lo scontro nella misura dell’inatteso, capiremo come sia stata possibile l’ascesa dell’ultradestra. Un’ascesa che è stata graduale, lo si è visto bene negli Stati Uniti con la nascita della Christian right alla fine degli anni Settanta. Anche in Europa questa ascesa è stata graduale – ricordiamoci il precedente di Berlusconi che sin dal 1994 ha accettato gli ex MSI nel governo e che per prima mise in questione l’urgenza nell’oggi dell’essere antifascisti. L’assenza di una sostanza politica ha portato la destra ad assorbire gradualmente il linguaggio e i temi dell’ala più estremista, divenendone così prenda a fini elettorali, mentre gran parte della sinistra era e rimane incapace di proporre un’alternativa perché persiste nell’idea dello scontro di razionalità in cui si erge a difensore di un sistema che, evidentemente, crea non solo scontento ma anche forte malessere sociale. Il tutto mentre si riduceva la democrazia ad una questione meramente elettorale, non tenendo di conto che vi sono anche questioni di bilanciamenti dei poteri, tutela delle diversità e delle opinioni, mediazioni. Una riduzione che è vicina all’idea fascista e/o illiberale dello Stato per cui tutto si fonda sulla legittimazione elettorale in maniera simil plebiscitaria – non importa se legittimati da una minoranza o legittimati con forzature e menzogne.
Il neofascismo non è un eufemismo. Essere antifascisti è essere consapevoli che un sentimento nostalgico per una forma di governo e di idolatria del capo rimane, come rimane la fascinazione per un governo forte, autoritario, che “difende” la Nazione da ciò viene percepito come una minaccia. Che quindi parla di Nazione, tacitamente di razzismo, superiorità bianca e maschile, di “devianze” omosessuali, di antisemitismo, di razzismo, di assenza di diritti e tutele per le donne in nome di una lettura della storia vicina ad istanza religiose e maschiliste. Il neofascismo è questo: la rilettura, sovente destoricizzata, di un passato ritenuto come aureo, nella speranza (vana) di poter restaurare quel passato. Una rilettura che in paesi europei come l’Italia può contare sulla continuità delle leggi, delle persone, delle istituzioni e di alcune mentalità per cambiare lo stato di diritto – non dimentichiamoci che la legge italiana sulla polizia, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, è del 1931. È tutto questo che muove, se pur non sempre in maniera evidente, l’estrema destra che in Italia ha preso il potere.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.