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A Pisa a vincere è il “buon amministratore”: Michele Conti, sindaco uscente, ex Alleanza nazionale (An) e Lega che a questa tornata si è presentato con una sua lista civica appoggiata dalla coalizione di destra. Si è imposto con il 52,16% delle preferenze. “Buon amministratore” è come lo definivano molti degli interventi che si sono spesi a suo sostegno nelle ultime settimane. E del resto, è lo stesso Conti che con la lista civica e l’idea del “civismo” ha voluto sottolineare come in politica sia importante il dato amministrativo, gestionale e manageriale. Sono le stesse doti che si richiedono ad un dipendente pubblico, per intenderci. Come se dietro ad una concezione amministrativa non stesse una visione della realtà filtrata da presupposti ideologici. Come se gli interessi di alcuni fossero gli interessi di tutti gli altri. È questa un’idea che si propone come “post politica” ma che è, invece, neocorporativa e neofascista e che proprio qui disvela la sua carica eversiva. Un’idea simile l’aveva il Partito fascista del ventennio, quando creò le corporazioni: per loro i bisogni del padrone e quelli del lavoratore erano gli stessi, tutto stava nel concertarli, di fatto facendo gli interessi dei primi. Sostenere oggi che un sindaco o, in generale, un politico si limiti ad “amministrare” è quindi un errore facilitato dalla cornice ideologica del neoliberismo che ha imposto l’idea del «non ci sono alternative», per citare Margaret Thatcher, e che quindi l’unica via possibile, l’unica funzione rimasta alla politica, è quella dell’amministrazione in stile corporativo. Già nel 1944 lo storico Karl Polanyi nel suo libro La grande trasformazione aveva messo in guardia dalla possibilità che il capitalismo si trasformasse in fascismo. Certo, né Conti né Giorgia Meloni sono Benito Mussolini. Sono, infatti, qualcosa di ben diverso: vengono dalla destra extraparlamentare sviluppatasi negli anni Settanta, quella sovversiva, violenta e stragista. Meloni lo dice chiaramente e con orgoglio nella sua autobiografia – ovviamente omettendo le responsabilità di quell’esperienza nelle stragi. Insomma, il rischio di una deriva autoritaria, in nome della “armonia” economica e della concertazione degli interessi, è evidente. 

Alle comunali le singole vittorie della destra, che si impone su cinque dei sette ballottaggi e prevale al primo turno in Sicilia, hanno le loro specificità. Ma sarebbe un errore non collocarle in un quadro più ampio, “macro”, che rivela come le destre stiano crescendo o comunque entrando nei palazzi del governo anche fuori dall’Italia. Una crescita parallela all’astensionismo, ma anche ad un notevole rafforzarsi di una sinistra che potrebbe essere vincente se non fosse divisa e avesse un’idea più spavalda e critica. A livello nazionale la partecipazione al voto è infatti del 49,61%. Unici dati “positivi” sono stati la Toscana (51,36%) e Pisa (56,34%, dove comunque è stata la prima volta che un sindaco uscente è andato al ballottaggio), città in cui gli elettori, rispetto al ballottaggio del 2018, sono aumentati in favore di entrambi gli schieramenti. Toscana che è diventata regione contendibile perché se alle regionali del 2020 aveva vinto il centrosinistra, alle politiche del 2022 e alle amministrative di questo anno ha vinto il centrodestra. Centrodestra che vince, ma il primo partito in Toscana è il Partito democratico (Pd). Mentre Fratelli d’Italia (FdI) non impone i suoi candidati e anche a Pisa Conti vince perché corre con una lista civica. Una constatazione che rivela le criticità di certi esperimenti e di certe decisioni di partiti e liste civiche di non indicare il voto ai propri elettori ai ballottaggi, oppure per la scelta di correre da soli. Non è certo colpa di Elly Schlein, arrivata da poco alla segreteria di un Partito in crisi di legittimità e senza un’identità definita. Prendiamo ad esempio Pisa: Conti e la destra si sono imposti nei quartieri popolari. La vittoria di Schlein fuori dal partito, grazie all’apertura delle primarie anche ai non iscritti, ha dimostrato che la maggioranza chiede una politica più radicale e schierata. Una politica che usi un vocabolario non ambiguo, che torni a definire i soggetti. E la riconferma è arrivata dall’aver perso nei quartieri popolari, dove la destra propone una narrazione e delle spiegazioni, ma in cui la sinistra non è in grado di convincere perché priva di un’identità precisa. Ciò che il livello macro indica, soprattutto in ottica comparata tra Stati, è che siamo di fronte ad uno scontro tra visioni sulla modernità. Uno scontro che può non apparire come tale, soprattutto in un paese come l’Italia che riesce ad ovattarsi rispetto ai cambiamenti che avvengono nel mondo, ma che è reale. La destra vince perché propone ritorni al passato, al sovranismo, a concetti di identità astorici ma che forniscono una narrazione: dicono alle persone chi sono – in questo senso colmano un vuoto lasciato dalla sinistra – e da dove vengono, spiegando come risolvere i loro problemi. Parallelamente emergono diverse richieste a sinistra di una politica più schierata e netta. 

Lo scontro riguarda visioni identitarie che definiscono l’essenza di chi vogliamo essere come comunità, la forma dello Stato, l’essenza delle nostre vite perché i diritti sono questo. Uno scontro che sarà sempre più aspro. Le guerre culturali negli Stati Uniti, pur con sé le specificità tutte locali, prima su tutte la linea del colore, non sono un’eccezione americana. Che si tratta di uno scontro identitario lo si vede dalla diffusa pratica di appropriazione di simboli culturali da parte delle destre per affermare concetti di identità che sono storicamente inesistenti – e infatti la contesa riguarda anche la razionalità. Basta pensare all’utilizzo delle magliette della nazionale brasiliana da parte dei sostenitori di Jair Bolsonaro e alle magliette con la croce pisana su sfondo rosso usate in questi giorni dai sostenitori di Michele Conti che si è definito difensore della «pisanità». 

Tutto questo può apparire contraddittorio rispetto alla difesa del neoliberismo da parte della destra, ma non lo è. Sin dall’avvento di Silvio Berlusconi la destra ha cercato di riscrivere la Costituzione. La carta fondamentale dello Stato afferma la centralità del Parlamento e dei partiti, là dove la destra – in maniera illiberale – riduce la politica ad una questione plebiscitaria (elettorale) dimentichi dei check and balances e di tutto ciò che rende uno Stato tale, compresa la mediazione parlamentare; la Costituzione afferma obiettivi di welfare che tendono all’universalizzazione, riconoscendo inoltre una forte presenza pubblica nell’economia e promuovendo la tassazione progressiva. Tutti aspetti che non combaciano con la visione manageriale e neocorporativa proposta dai sostenitori di Michele Conti o di Giorgia Meloni. 

Tra i giovani c’è tanta rassegnazione. Ma questa rassegnazione è frutto del desiderio inespresso, o non realizzato perché non raccolto, di un futuro diverso. La sinistra deve saper raccogliere quest’urlo di dolore che porta più del 50% dei giovani tra i 18 e i 35 anni ad andare all’estero e che, al contempo, non crea attrazione per gli europei. È un contesto sociopolitico asfissiante in cui non vi è orizzonte sul futuro perché qualsiasi professione, anche dopo gli anni di studio sempre maggiori che vengono richiesti con i master e i dottorati, non è accessibile in forme stabili, ma solamente con un precariato che non consente di realizzare le aspirazioni e i desideri di una vita adulta. E in tutto questo gli “over” spesso non ascoltano, ma impongono la narrazione del sacrificio, del “se vuoi lavorare devi cedere sui diritti”, del “ti devi accontentare”. Uno scontro, quindi, che è anche generazionale. La disperazione è frutto della tristezza – se non della depressione – diffusa, della preoccupazione per il presente e il futuro, due dimensioni prive di speranza e di contesti che rispecchino le parità di genere, di etnia e di opportunità, e della rassegnazione che tutto questo comporta, inclusa la chiusura all’ascolto. Una rassegnazione che è anche frutto della cornice del realismo capitalista, che fa sì che tutto sembri sempre uguale perché non essendovi alternative, allora la storia è finita. Raccontare è resistere, scriveva Luis Sepulveda. Il neoliberismo, nel suo ultra-conservatorismo, ha ucciso la dimensione dell’immaginazione: la dimensione dei sovversivi che immaginano un’alternativa e, così, creano resistenza. Perché la vittoria della destra è anche legata all’incapacità di raccontare un’alternativa diversa – di nuovo, una vittoria della cultura e dell’ideologia neoliberista. 

La questione, come si vede, è tutta politica anche se molti parlano di amministrazione e gestione manageriale. Pertanto, solamente tornando alla politica, quella vera, la sinistra potrà tornare a vincere traghettando il mondo verso un futuro migliore. Perché la destra ci porterà solamente alla frammentazione, alla disunione, all’assenza di diritti, ai conflitti. La sinistra deve tornare ad essere l’ala sinistra del possibile

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