Lo scorso 6 marzo il Financial Times lanciava dalle sue colonne la notizia dell’arrivo di Xi Jinping in Italia. A fornire l’anticipazione Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo economico del governo giallo-verde e capo della task force Italia-Cina. Due giorni più tardi confermava a ruota l’ANSA, ufficializzando la visita e legittimando così definitivamente le preoccupazioni di Europa e Stati Uniti: Xi Jinping sarebbe volato a Roma con l’obiettivo principale di firmare un Memorandum of Understanding (MoU) sull’iniziativa Belt and Road con il governo italiano.
Il MoU è stato siglato definitivamente lo scorso 22 marzo e ha ufficializzato la cooperazione Cina-Italia all’interno della doppia progettualità “Silk Road Economic Belt” e “21th Maritime Silk Road”, le due arterie rispettivamente terrestri e marittime del macro progetto cinese che ricostruirà le rotte dell’antica Via della Seta. Italia e Cina, insomma, puntano a ritornare i due estremi di un antico corridoio commerciale che iniziava a delinearsi sulla geografia mondiale già dalla lontana dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.).
Alla luce di questa eredità condivisa, sottolineata dallo stesso presidente Xi Jinping dalle colonne del Corriere della Sera del 20 marzo, l’imminente incontro governativo tra Cina e Italia si riveste non solo di una grandissima importanza storica e commerciale, ma si configura come una mossa decisiva sullo scacchiere internazionale. L’annuncio ha subito infuocato il dibattito nazionale, europeo e globale sollevando preoccupazioni o consensi, risvegliando antiche paure o nuovi entusiasmi commerciali. Dal FT il portavoce del Consiglio Nazionale di Stato americano Garrett Marquis ha tuonato un monito all’Italia: “I risvolti di tali iniziative [ovvero la firma di un memorandum con la Cina all’interno della cornice Belt and Road] potrebbero rovinare la reputazione italiana nel lungo termine”. Il portavoce ha inoltre incalzato sottolineando che “non c’era alcuna necessità che l’Italia supportasse il progetto di vanità cinese per le infrastrutture”. Ai fastidi a stelle e strisce si affiancano le preoccupazioni europee. Il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “la Cina intende occupare economicamente l’Europa”, “gli americani sono i nostri principali interlocutori”. Tra gli alti vertici europei già da tempo si respira un clima di allerta per quanto riguarda le cooperazioni con la Cina. È dello scorso anno il report pubblicato in esclusiva sul quotidiano tedesco Handelsblatt che vede la maggior parte degli ambasciatori europei a Pechino concordare su un’unica posizione: la cooperazione con la Cina è pericolosa, il dragone sta puntando a destabilizzare il blocco europeo. Europa e Stati Uniti, infatti, non hanno celato i timori che il gigante asiatico possa nel medio-lungo termine inquinare i rapporti transatlantici e frammentare un quadro geopolitico che si è configurato fin dagli accordi di Bretton Woods del 1944 omogeneo e tutto sommato compatto intorno alle matrici chiave di democrazia e libero mercato.
Inutili gli appelli dello stesso Geraci che ha sottolineato fin dalla sua dichiarazione al Financial Times l’assoluta importanza dell’accordo in chiave puramente economica “perché i prodotti Made in Italy abbiano più successo in Cina in termini di volume di esportazioni”. Di poco effetto anche le rassicurazioni del ministro degli esteri Moavero che ha ricordato come la priorità del governo rimanga la sicurezza nazionale e per questa ragione le alleanze atlantiche non vengono in alcun modo messe in discussione.
Cosa spaventa di questa visita cinese in Italia? In base alle indiscrezioni circolate a partire dal 12 marzo con la pubblicazione del testo del discusso memorandum, i contenuti dell’accordo risulterebbero molto vaghi e generici. Nessun riferimento quindi a cooperazioni strategiche che evochino posizioni anti-atlantiste, nessun richiamo a cooperazioni economiche che svantaggino l’Europa. Un memorandum vuoto, che si limita a definire per grandi linee le modalità di cooperazione tra i due paesi all’interno del progetto Belt and Road. Un memorandum come altri. Accordi del genere sono, infatti, già stati firmati da 12 paesi dell’Unione Europea, mentre il Lussemburgo sarebbe in trattativa. Perché tanto rumore?
Come sostiene Dario Fabri di Limes, quello che preoccupa gli Stati Uniti e l’Europa è che l’Italia abbia deciso di firmare un memorandum vuoto piuttosto che sottoscrivere un accordo che definisca gli ambiti e i limiti della cooperazione sino-italiana: poche garanzie che rasserenino agli alleati e troppa brevitas nei patti con la Cina. Il tutto sembrerebbe suggerire l’adozione da parte dell’Italia del metodo cinese di contrattazione dove la sigla di qualsiasi accordo tra le parti va interpretato come l’inizio della trattativa vera e propria piuttosto che la coronazione di lunghi confronti diplomatici alla ricerca di una giusta mediazione tra gli interessi.
Se l’Italia dirà si all’avvio di questa esperienza di cooperazione (perché è la partenza e non la realizzazione di un accordo, come da prassi cinese) il Bel paese sarà il primo tra i grandi alleati a supportare un progetto che gli Stati Uniti stessi considerano minaccioso per la propria sicurezza. La Belt and Road o Nuova Via della Seta è, infatti, il piano strategico lanciato dalla Cina nel 2013, all’alba dell’ingresso del paese in una nuova fase di sviluppo non più a due cifre, e in seguito alla riscontrata urgenza di proiettare all’esterno l’eccessiva e sovrabbondante capacità produttiva interna e iniettare fuori dai confini nazionali le ingenti riserve di capitali denominati in valuta estera. L’obiettivo ultimo del progetto è quello di integrare la macroarea euroasiatica attraverso un grandissimo reticolato infrastrutturale che agevoli la circolazione di capitali, merci e persone. Non solo, il progetto si spinge fino al continente africano e alle rotte artiche, coinvolgendo un totale di 80 paesi, il 60 % della popolazione mondiale e producendo più del 30% del PIL globale.
Un tale ambizioso piano, la cui importanza strategica è sottolineata addirittura nel preambolo della costituzione cinese, solleva le preoccupazioni mondiali in un momento storico in cui l’egemonia degli stati Uniti è messa, per la prima volta dal crollo del muro di Berlino, in discussione dall’emergere di una nuova potenza economica. Il lancio del progetto Belt and Road suggerisce uno spostamento ad oriente di porzioni di potere globale. In questa fase di transizione dell’ordine internazionale, la Cina intercetta le mancanze dell’egemone – che all’inseguimento di una politica “America first” ha abbandonato l’impegno internazionale – e si fa portavoce delle istanze del sud del mondo proponendosi di approfondire l’ordine mondiale: puntare allo sviluppo di tutti i paesi, promuovere una crescita sostenibile ed inclusiva.
Il progetto non è ovviamente esente da criticità. I corridoi commerciali descritti sul mappamondo terrestre dalla Cina percorrono aree geopolitiche estremamente instabili e fragili come il Medio Oriente o il Pakistan. E gli ingenti investimenti cinesi in questi paesi non compensano la mancanza di mediazione politica o arbitraggio internazionale, funzioni che siamo abituati ad attribuire ad un leader internazionale e a cui spesso la Cina si sottrae ritirandosi sotto l’ombrello della non-interferenza. Le opportunità economiche che la Cina offre devono, quindi, esser ragionate prestando attenzione ai costi dell’ingresso nei confini nazionali di eventuali capitali, prodotti e servizi cinesi. Paesi con un grande debito devono valutare attentamente le partnership con il dragone per evitare che non si replichino casi come lo Sri Lanka, il Myanmar o Gibuti, i quali – per insolvenza dei loro debiti – si sono visti sottrarre importanti e strategiche infrastrutture nazionali.
Nonostante le preoccupazioni e le problematicità, con la scelta inusuale quanto strategica di rilasciare un’anticipazione tanto importante ad un quotidiano britannico, bypassando completamente i media italiani, il governo italiano invita il mondo a riflettere. Che sia stata una scelta meditata per lanciare un dibattito globale e riposizionare l’Italia al centro dell’attenzione internazionale o una volontà cinese di lanciare un messaggio al mondo e annunciare in pompa magna il suo arrivo nel cuore dell’Europa, la notizia è sempre una: Italia e Cina dialogano amichevolmente sul progetto Belt and Road. I cinesi offrono con la Nuova Via della Seta all’Italia la possibilità di bilanciare il saldo commerciale con la Cina, avvantaggiandosi della grande porzione di cinesi a medio reddito che possono trainare le esportazioni del Made in Italy; offrono l’opportunità di migliorare una rete infrastrutturale obsoleta e rilanciare la portualità italiana: la speranza è ritornare ad essere l’hub strategico del Mediterraneo. Dopo anni di assenza dal panorama internazionale di una progettualità sistemica così decisa e ambiziosa, il dragone bussa alle porte del mondo proponendo opportunità e collaborazioni win-win. Mentre si grida all’invasione cinese, si evocano le antiche alleanze atlantiche, si combatte una guerra commerciale di bilanciamento, la Cina contratta già nel cuore del continente europeo.
Xi Jinping fa scacco al re. Nonostante le numerose strategie di contenimento, dall’altra parte dell’oceano gli Stati Uniti non hanno avuto successo nell’ostacolare il grande progetto cinese. Nella partita internazionale, ora, è il turno dell’Europa.
A cura di: Arianna Papalia
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