Perché il non voto è ovviamente un voto: un voto legale e legittimo, un voto per dire andate tutti all’Inferno. Ma è anche il voto più triste, il più deprimente, il più straziante, che possa esistere: il voto di un cittadino che non si riconosce in nessuno, di chi non si fida di nessuno, di chi non sa da chi farsi rappresentare, e che per conseguenza si sente abbandonato frustrato solo. I nostri compagni si sono fatti torturare fucilare eliminare nei campi di concentramento, perché noi riottenessimo il diritto di voto. E io non voto! Soffro, si. E maledico il mio rigore, la mia intransigenza, il mio orgoglio. Invidio chi è capace d’adattarsi, di piegarsi, raggiungere un compromesso e votare per un candidato che sembra meno peggio degli altri.[1

 

Così scriveva Oriana Fallaci nel 2002, inserendo questa riflessione sul non voto all’interno di una forte polemica verso la politica italiana, che a sua volta si inseriva in una più ampia critica alla politica occidentale dell’epoca. La Fallaci, figlia di un partigiano ed essa stessa staffetta, sapeva bene da dove venisse il diritto al voto, con quali sacrifici esso era stato ottenuto, ma ciò nonostante dichiarava di non voler votare. Una scelta, la sua, motivata in parte dalla rabbia ma anche dalla sfiducia e dalla delusione verso un’intera classe dirigente.

Certo, non sempre il non voto ha alle spalle una motivazione e una coscienza culturalmente forte come quella della Fallaci, può esserci ad esempio il caso della persona disinteressata – che ha comunque compiuto la scelta di non interessarsi, e anche qui i dubbi sorgono: lo ha fatto a causa della politica stessa? O per motivi personali? In ogni caso, in quelle righe, Oriana Fallaci è riuscita a dar voce a molte delle persone che non hanno votato. Quelle persone che, in una situazione apparentemente emergenziale, non hanno voluto votare ugualmente: inaffidabilità? O stanchezza e frustrazione? O magari entrambe?

Come nota la Fallaci il non voto è legittimo ed è esso stesso un voto: esprime la duplice e sacrosanta idea di dire «andate tutti all’inferno» e l’amarezza per non poter esercitare il proprio diritto perché di fronte ad una impossibile scelta cui si risponde con la scelta del non voto.

In un post sulla sua pagina Facebook del 28 dicembre 2017 Adriano Sofri scriveva riguardo al voto-non voto:

Ogni tanto sento qualcuno dire che è stanco di votare “il meno peggio”. […] Sono persuaso che il voto al “meno peggio” sia la traduzione elettorale della definizione della democrazia come il peggior sistema di governo a parte tutti gli altri. Cioè un’idea, se non volete dire pessimistica, almeno misurata nelle aspettative investite nella pubblica amministrazione. […] In altri ambiti, sia della vita privata che della partecipazione sociale, ci si può proporre di perseguire il bene, quello che si crede il bene. La preferenza per il “meno peggio” mette al riparo dalle delusioni troppo dolorose e dal loro risvolto, il disgusto per il voto.

Dunque se sosteniamo, e spesso succede, che la democrazia è il migliore tra i peggiori sistemi di governo, andare a votare non potrà che significare scegliere il meno peggio. Il discorso di Sofri ha senso: offre uno spunto di riflessione che coinvolge la democrazia stessa, anche se probabilmente influenzata dal passato comunista di Sofri, ma che non credo non ammetta il non voto. La motivazione alla base della Fallaci non è un atteggiamento da radical chic che si ostina a non votare perché non c’è nessuno che gli corrisponde. La motivazione della Fallaci è che, nonostante tutto, talvolta il meno peggio è comunque troppo peggio per essere votato. Perché se è vero che la democrazia è ciò che dice Sofri, e quindi anche il voto è una sua estensione, allo stesso tempo un cittadino non può accettare il ricatto di una fazione politica che vuol rimanere al potere sfruttando il fatto che «di là non ci sono alternative, di là ci sono i mostri»; né si dovrebbe votare chi si reputa peggio del peggio. A tutto può esserci un limite: ogni regola generale ha un’eccezione. Anche perché, non scordiamocelo, il politico deve rappresentare chi l’ha votato, quindi  non credo sia un atto di megalomania pretendere di trovare un candidato che corrisponda, o magari un partito –un movimento no, quelli non li voto.

C’è un rischio, però, nel non voto e sta nel fatto che esso rischia di perdersi in un mare in cui è difficile orientarsi perché oscuramente eterogeneo. Il non voto non esprime esplicitamente «non ti voto perché..», dice piuttosto o che molte persone non si sentono rappresentate, o che a molti non interessa votare: non sappiamo mai che motivazione c’è dietro. Il rischio, quindi, sta nel fatto che se a lungo andare la classe politica non si interessa agli astenuti questi aumenteranno; se nessuno sarà in grado di far fronte all’astensione potrebbe crearsi la spiacevole situazione per cui pochi governano eletti da pochi. Una soluzione, forse, c’è: finita la protesta del non voto, ma anche di chi si tura il naso e vota,  si può sempre mettere in atto la famosa frase di Kennedy «non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese», perché è nell’attesa o nella protesta che non porta dibattito che nasce l’indifferenza e l’immobilismo.

Lascio a voi tirare le somme sul giusto o sbagliato che sia non votare: il mio intento non è certo quello di dare risposte, ma la speranza di instillare dubbi.

 

[1] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 144-145.

 

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