«La mafia è in Parlamento», «In Italia comanda la mafia», «I politici sono mafiosi». Queste espressioni circolano spesso nell’immaginario comune quando si parla di un tema delicato e controverso: il rapporto tra politica e mafia. Ma per capire l’intreccio pericoloso che porta amministratori pubblici e uomini dei clan a condividere percorsi di illegalità occorre sgomberare il campo dai luoghi comuni che non aiutano la comprensione del fenomeno.
Le mafie non sono partiti, non ottengono il consenso per loro stesse. In un certo senso però possono partecipare alle contese elettorali: scambi di favori con i futuri eletti o con gli stessi elettori. Esempio: il voto di scambio. Io voto il candidato Caio e ottengo un favore da Tizio, emissario della mafia in una determinata area o quartiere. Già, perché un’altra inesattezza che va sgomberata dal campo è quella che dipinge le mafie come organizzazioni onnipresenti, “piovre” in grado di determinare chi vinca alle elezioni politiche. Nel momento elettorale, al massimo, i mafiosi possono spostare qualche centinaio o migliaio di voti, grazie al controllo che sono in grado di esercitare in una determinata area. Magari decisivi in una contesa dai margini incerti di percentuali, ma che da soli non sarebbero in grado di determinare il vincitore (e nemmeno l’elezione in Parlamento). Le mafie possono avere un controllo capillare di un quartiere o di un rione. Difficile però che in una grande città o su scala regionale possano rappresentare il «motore elettorale» di un candidato.
All’interno delle stesse organizzazioni mafiose non vi è poi un’unità di indirizzo politico condivisa. Come ha notato lo storico Salvatore Lupo «non vi è una delibera come se fossimo in presenza di un consiglio di amministrazione che, ogni qualvolta si presenta un momento elettorale, indirizzi gli uomini d’onore su chi votare»[1]. Ogni mafioso può coltivare infatti rapporti personali con determinati uomini politici. Rapporti esclusivi e individuali, che vanno oltre le dinamiche e la struttura dell’organizzazione.
La forza delle mafie e la loro capacità di rapportarsi con il mondo politico è favorito dal forte radicamento che gli uomini dell’organizzazione hanno nella società, nella vita di tutti i giorni.
Sempre Lupo ha scritto: «La fenomenologia mafiosa è embedded, cioè profondamente “radicata”, “conficcata” nella società, collocata in una sua dimensione profonda»[2]. La capacità della mafia di relazionarsi con il mondo politico dipende anche da questo. I mafiosi fanno parte della società: non sono corpi estranei o “parassiti”. O meglio, rappresentano una «malapianta» difficile da estirpare, da più di cento anni presente in Italia, ma che si interfaccia costantemente con altri soggetti, che siano privati o pubblici.
«La politica è in grado di controllare le mafie». Ecco un altro luogo comune che occorre sgomberare dal campo. Un falso mito che negli anni ha giovato delle dichiarazioni di quanti sostenevano l’esistenza di un «terzo livello», di un’entità sovraordinata all’organizzazione criminale (nel caso specifico, Cosa Nostra) in grado di gestire il rapporto mafia – politica in maniera organica. L’espressione «terzo livello» veniva utilizzata nel 1982 da Giovanni Falcone e dal collega Giuliano Turone per stilare una sorta di classificazione dei delitti mafiosi[3]. Secondo i due magistrati i delitti di «primo livello» erano reati come estorsioni, sequestri di persona e contrabbando, cioè attività “essenziali” del sodalizio criminale. Al «secondo livello» venivano classificati i reati “eventuali”, che non costituivano la ragione d’essere di Cosa Nostra, come per esempio gli omicidi degli uomini d’onore che si erano macchiati di “disonore”. Arriviamo quindi al «terzo livello»: con questa espressione Falcone e Turone si riferivano ai reati nè “essenziali” nè “eventuali”, ma che venivano perpetrati in un dato momento per garantire la sopravvivenza della mafia siciliana. L’omicidio di un prefetto, di un commissario di polizia o di un magistrato impegnato nella lotta alla mafia. Dai delitti di «terzo livello» si è passati – attraverso una semplificazione discutibile – al «terzo livello», al «burattinaio» che muove le fila della mafia. Giovanni Falcone ha scritto:
«Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche. La realtà è più semplice e più complessa nello stesso tempo. Si fosse trattato di tali personaggi fantomatici, di una Spectre all’italiana, li avremmo già messi fuori combattimento: dopotutto, bastava un James Bond»[4].
L’ipotizzato «terzo livello» e il falso mito della «politica che comanda la mafia» non tengono minimamente in considerazione le peculiarità dei mafiosi, non meri esecutori di ordini altrui ma soggetti autonomi e capaci di detenere una risorsa importante: il capitale sociale. Con questo concetto sociologico si fa riferimento alle risorse che un individuo ricava e può utilizzare a partire dalle reti di relazioni in cui è inserito. Secondo Rocco Sciarrone, sociologo specializzato in criminalità organizzata dell’Università di Torino, «i mafiosi sono specialisti di relazioni sociali. Il loro punto di forza è quello di riuscire ad utilizzare per fini molteplici relazioni che intrecciano più ambiti. Non solo nel mondo criminale, ma anche all’interno dell’economia legale».
Indubbiamente le organizzazioni mafiose hanno la necessità di interloquire con la politica. La ricerca di contatto con questo mondo è finalizzata al conseguimento di favori che senza la realizzazione di questo contatto non sarebbero possibili. Ciononostante mafia e politica rimangono e sono due entità separate e distinte. Si cercano, fanno patti e parlano continuamente tra di loro. Ma non stringono patti generali al massimo livello. Non ci sono «burattini», «grandi vecchi» o altri personaggi fantomatici. Citando Falcone: «La realtà è più semplice e più complessa nello stesso tempo».
[1] Salvatore Lupo, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2004, pp. 227 – 229.
[2] Salvatore Lupo, Che cos’è la mafia? Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Donzelli, Roma, 2007, p. VIII.
[3] Giovanni Falcone, Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Roma, 1992, p. 168,
[4] Ibid., p. 169.
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.