«A magnificent desolation». Con queste parole l’astronauta Buzz Aldrin, membro dell’Apollo 11, la missione che il 20 luglio del 1969 portò per la prima volta l’uomo sulla Luna, comunicava le sue impressioni alla vista del suolo lunare. Ma che cosa rimane, oggi, di questa «magnifica desolazione»? Anzi, meglio ancora: che cosa non rimane?
A lungo si è ritenuto che la causa principale della corsa allo spazio e verso l’allunaggio fosse la Guerra Fredda. I successi sovietici del 1957 con i lanci dello Sputnik 1 e dello Sputnik 2 – il secondo dei quali portò la cagnolina Laika in orbita -, spinsero il Congresso americano ad approvare nel 1958 il National Aerounatics and Space Act, con il quale venne istituita la National Aeronatics and Space Administration (NASA). Gli alti costi dell’agenzia aerospaziale venivano motivati con i potenziali impieghi civili e militari che sarebbero derivati dallo sviluppo tecnologico. Era, inoltre, una sfida al prestigio tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel tentativo di conquistare, tramite il rafforzamento della propria immagine, l’opinione pubblica degli Stati esteri, tra cui il blocco dei Paesi non allineati. Tuttavia, dalla desecretazione di alcuni documenti dell’epoca è emerso che non furono soltanto le esigenze della Guerra Fredda a muovere il Congresso: vi fu anche una componente non indifferente di idealismo che si intrecciava con un richiamo al Destino Manifesto e al mito della frontiera. I due concetti, intrecciati tra loro, richiamano la convinzione che la Provvidenza abbia assegnato agli Stati Uniti il compito guidare il mondo verso un futuro nuovo e migliore: primo e più fulgido esempio fu l’espansione verso Ovest, in quei territori in cui la giovane nazione americana, affrontando in solitudine le avversità, portò la “civilizzazione”uscendone trionfante. L’idealismo cui farò riferimento nell’articolo, che riguarda principalmente la retorica pubblica addotta a sostegno delle missioni spaziali, coniugava i due riferimenti al Destino Manifesto e al mito della frontiera nella visione degli Stati Uniti come faro del mondo in quanto creatori (o portatori, a seconda delle declinazioni) del progresso.
Come nota Matthew Wilhelm Kappel nel suo recente volume Exploring the next frontier (2016) gli anni Cinquanta e Settanta videro un’evoluzione del mito della frontiera: da un lato la guerra del Vietnam poneva il dilemma della conseguenze di una visione semplicistica e mitizzata del proprio idealismo; dall’altro vi fu una rivisitazione del mito della frontiera attraverso le missioni spaziali che dettero luogo ad una vera e propria esplosione della fantascienza, cui anche i sovietici non rimasero indifferenti – famosi sono i manifesti che ritraggono Jurij Gagarin o i disegni delle colonie spaziali.
In questa processo culturale il mito della frontiera subì una rivisitazione che lo portò ad abbracciare non più solo l’Ovest, ma anche lo spazio in cui la colonizzazione era vista come una possibilità reale, sia nell’immaginario popolare che in parte di quello scientifico, di realizzare il mito del progresso che la concezione del Destino Manifesto portava con sé. Un esempio è il saggio scientifico del professore della Princeton University Gerard K. O’Neill The High Frontier: Human Colonies in Space, che proponeva alla NASA la creazione di colonie spaziali autosufficienti e dotate di gravità grazie ad un complesso meccanismo di rotazione il cui principio O’Neill aveva fornito nell’articolo The Colonization of the Space (1974). La frontiera si era spostata: non più il piano dell’orizzonte simboleggiato dalle praterie della mitologia western, ma l’altezza – high frontier, per l’appunto.
Nello spostamento della frontiera da un luogo fisico (l’Ovest) ad uno più indefinito (lo spazio) un momento fondamentale fu il discorso di Kennedy alla Rice University (1962), attraverso il quale il presidente riuscì, grazie all’obiettivo dell’allunaggio alla fine del decennio, a rendere la frontiera spaziale parte del suo progetto politico: the New Frontier. Nel suo discorso sono presenti quasi tutti gli elementi retorici elencati fino ad ora: il concetto di frontiera, simboleggiata da uno dei più importanti coloni di Plymouth, William Bradford, e la retorica secondo cui è nei momenti di difficoltà che emerge il carattere della Nazione; la fiducia nel progresso; l’impossibilità di sottrarsi al destino luminoso che i suoi contemporanei avrebbero dovuto perpetrare nello spazio.
This country was conquered by those who moved forward–and so will space.
Lo slogan «We choose to go to the Moon», quindi, non guidò soltanto gli sforzi per arrivare sulla Luna entro la fine del decennio, ma sovrappose la corsa allo spazio con quella alla Luna, la quale divenne la rinnovata espressione del mito della frontiera e, quindi, del Destino Manifesto.
L’ampia diffusione della passione per la fantascienza in quasi ogni settore del mercato testimoniava che il discorso idealistico sull’esplorazione spaziale faceva presa sul pubblico americano. Si pensi ai modelli Firebird della General Motors che ricordavano volutamente linee aereonautiche; alla serie di storie di fantascienza Urania, nata in Italia nel 1952 ed edita dalla Mondadori; ai romanzi di Isaac Asimov o di Ray Bradbury; ma anche ai fumetti come Flash Gordon e Jeff Hawke o la serie Buck Danny che aveva come protagonista un pilota della United States Air Force (USAF); per arrivare alla televisione con Star Trek e al cinema con film come The Invasion of the Body Snatchers (1956) o 2001: A Space Odissey (1968). Anche il mondo della musica non rimase estraneo da questa “mania” per lo spazio, basta qui citare a titolo di esempio i singoli Space Oditty (1969) e Starman (1972) di David Bowie e Rocket Man di Elton John (1972).
Ciononostante, l’entusiasmo per l’esplorazione spaziale iniziò ad incrinarsi già tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, portando ad un largo disinteresse, nel pubblico americano, per le missioni successive all’Apollo 11. Gli omicidi dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King e di Malcolm X, la deriva violenta di una parte dei movimenti degli anni Sessanta e l’acuirsi delle tensioni razziali negli stessi anni, così come l’inasprimento della guerra in Vietnam contribuirono infatti a mutare quel clima favorevole alla frontiera spaziale. Un mutamento che raggiunse il proprio apice agli inizi degli anni Settanta: prima con la pubblicazione dei Pentagon Papers (1971) e i bombardamenti in Cambogia e Laos, poi con lo shock petrolifero del 1973 che pose fine al mito del benessere illimitato ed, infine, con il Watergate che portò alle dimissioni di Nixon nel 1974. Da non trascurare, inoltre, il contesto della Guerra Fredda: la Luna era stata conquistata e, ciò offriva la possibilità, concretizzata da Nixon, di spostare i fondi verso le missioni spaziali che, rispetto ai costi elevati delle missioni Apollo, avevano una utilità più immediata all’interno di una logica bipolare.
In un certo senso, l’affermazione di Aldrin «magnificent desolation» ben descrive il disincanto riguardo la corsa allo spazio successivo all’Apollo 11.
I mutamenti della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta spiegano, però, solo parzialmente il calo d’interesse nel pubblico americano per l’esplorazione spaziale. Soprattutto, non credo chiariscano l’assenza di una memoria pubblica forte quanto quella dell’Apollo 11 per le missioni precedenti e le successive.
Nella narrazione che coinvolge e ha coinvolto l’Apollo 11, l’allunaggio è ritenuto e descritto come un «evento». L’evento è, solitamente, pensato come qualcosa di unico: un avvenimento che segna l’irruzione dell’irripetibile nella catena del tempo e che, come tale, non ha nessun antecedente con cui può essere confrontato. In tal senso, il solo modo di dare profondità storica all’evento è affidargli un senso teleologico, cioè una narrazione che lo carichi di significato. L’interpretazione dello sbarco sulla Luna come evento è, inoltre, frutto della produzione dell’avvenimento da parte dei media. La stampa, la televisione e la radio, non agivano, infatti, soltanto come mezzi indipendenti dai fatti, ma come condizione stessa della loro esistenza. La diretta televisiva dell’allunaggio ha infatti permesso di dialogare con la Storia direttamente attraverso la voce dei suoi protagonisti, dando al discorso la solenne efficacia del gesto irreversibile. Eliminando ogni dilazione temporale e presentando l’azione durante il suo svolgimento, inoltre, la diretta ha proiettato l’evento nel vissuto delle masse e, quindi, nel regno della memoria pubblica. Ciò che quindi rimane dell’Apollo 11, ed in generale delle missioni Apollo, è la memoria e il mito che su di essa si fonda. Ciò che non rimane è una vera consapevolezza storica di quell’evento. Il mito spiega chi siamo, dove siamo e perché siamo, costruendosi a partire dalla memoria che non solo è selettiva ed esclusiva, ma portatrice di una verità intesa come vissuto personale. La diretta televisiva ha, difatti, creato una sovrapposizione di esperienze tra gli astronauti dell’Apollo 11 e gli spettatori, che hanno avuto in questo modo la possibilità di vivere lo sbarco in prima persona pur non prendendovi parte. L’Apollo 11 è così divenuto una componente della memoria personale e collettiva e, come tale, soggetta al mito nazionale e alla sua narrazione, che lo hanno reso un elemento di coesione culturale. La cornice teleologica in cui collocare l’allunaggio-evento era, inoltre, fornita dalla tradizione politico-culturale statunitense, ed era quella relativa al mito della frontiera e al concetto di Destino Manifesto, in cui i media e la pop culture giocarono un ruolo di primo piano.
Questi ultimi passaggi spiegano in parte anche il disinteresse per le missioni successive l’Apollo 11. L’allunaggio fu un evento nella misura in cui segnò uno spartiacque: fu la constatazione in mondo visione che «si può fare», che si possiedono le competenze per poter compiere un viaggio di andata e ritorno, con un equipaggio di tre persone ed un certo margine di sicurezza, dalla Terra alla Luna. Il fatto che gli allunaggi successivi non abbiano riscosso grande successo – come del resto oggi non lo riscuotono, se non in casi “eccezionali”, le missioni sulla stazione internazionale – è in parte dovuto al fatto che il vero evento è stato andare sulla Luna. La possibilità di ripetere il viaggio ha normalizzato l’impresa, sottraendole il fascino dell’evento. Una volta entrata nell’orizzonte del “già visto” ha perso dunque attrattiva. Accanto a questo discorso è, inoltre, necessario aggiungere la constatazione che negli anni della corsa allo spazio larga parte del popolo americano era scettica riguardo la reale utilità e necessità delle alte spese che l’esplorazione spaziale richiedeva. Pertanto, terminato l’entusiasmo per lo sbarco, molti americani ritennero che non fosse più necessario continuare a destinare ampi fondi alla NASA per le sue missioni. In tal senso, la narrazione mitica che coinvolge l’Apollo 11 oggi è, in parte, frutto di una costruzione a posteriori in cui a lungo ha prevalso un racconto bianco e maschile, ha tralasciato il ruolo delle donne e delle minoranze. Aspetto, quest’ultimo, che inizia invece oggi ad essere messo in rilievo sia nella letteratura scientifica che nella produzione culturale, come nel film Hidden Figures (2016), che narra la storia vera di tre scienziate afroamericane alla NASA alla fine dei Cinquanta.
Concludendo, la storia dell’Apollo 11 appare oggi una non-storia: un evento che, come tale, non ha avuto un prima e un dopo ma che si è semplicemente verificato. A prova di ciò è sufficiente pensare al silenzio assordante riguardo i programmi Mercury (1958-1963) Gemini (1965-1966), la morte degli astronauti dell’Apollo 1 Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee nell’incendio del 27 gennaio 1967, oppure riguardo l’Apollo 15 che portò il rover sulla Luna nel 1971. L’unica eccezione è rappresentata dall’Apollo 13 (1970): grande fallimento della NASA presentato come un successo, tale da rinforzare il mito della frontiera. Il lieto fine e la grandiosità dell’impresa in quel caso risedettero nell’aver riportato i tre astronauti sulla terra sani e salvi dopo che un’esplosione nel modulo di servizio aveva compromesso gravemente la sicurezza e la possibilità di rientro dell’equipaggio. L’Apollo 13 fu, infatti, presentato dal presidente Nixon come un tributo al coraggio umano e all’ingegno americano, che anche nel momento del disagio trova una via d’uscita tale da rendere le missioni successive più sicure. L’Apollo 13 rappresenta, quindi, la vera epica della frontiera: tre uomini che affrontano uno spazio desolato in solitudine, ma che hanno dalla loro parte il destino e che, grazie alla loro astuzia, riescono a prevalere sulla natura, uscendone più forti e maturi di prima.
Una versione simile di questo articolo è apparsa per la prima volta sul blog del Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euroamericana C’era una volta l’America. È possibile leggere l’articolo qui.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.