Era la fine del 1919, già colpito dalla tubercolosi, malattia che lo porterà alla morte nel 1924, Franz Kafka decise di scrivere Lettera al padre (Roma, Newton Compton editori, 2016) definita da molti un vero e proprio atto d’accusa nei confronti del genitore al quale lo scritto non giungerà mai.

Il libro è uno scritto epistolare che Kafka dedicò a suo padre, con il quale non ebbe mai un buon rapporto. Il senso della lettera non è quello di stilare un’accusa contro il genitore, ma di mettere in rilievo le loro reciproche incomprensioni, determinate da una visione o per meglio dire da un approccio alla vita completamente opposto.

Il padre di Franz, infatti, era un commerciante grezzo e burbero, che si era conquistato da solo la ricchezza che possedeva. Le privazioni subite nel passato dal Sig. Hermann Kafka fecero di lui un uomo duro, inflessibile e autoritario con i figli e in generale poco incline ad accettare le idee altrui. Le sue opinioni, dispotiche e manichee, lo portarono spesso a scontrarsi con Franz che al contrario era una persona molto sensibile con forti inclinazioni artistiche e che tendeva a rinchiudersi in sé stesso. Il carattere del giovane Kafka così introverso e riflessivo sicuramente non era gradito ad Hermann, il quale avrebbe preferito che il figlio avesse un carattere simile al suo: forte, volitivo, arrogante, egocentrico, pronto ad aggredire il mondo e ad aumentare i profitti del negozio di famiglia.

Filo conduttore dell’intera lettera sono le etichette negative che si attribuisce l’autore e che sono talmente radicate in lui da fargli perdere la capacità di un giudizio realmente positivo su di sé e da fargli provare solo insoddisfazione e frustrazione riguardo al suo talento artistico: “Profonda la diffidenza che nutro verso me stesso” (pag.70). Kafka denuncia anche altre conseguenze drammatiche frutto del difficile rapporto con il padre: “Ho disimparato a parlare. Non sarei comunque divenuto un grande oratore, ma avrei senz’altro dominato il linguaggio umano” (pag.40). Kafka cerca di sottrarsi più volte all’influenza paterna convinto di avere ancora una possibilità di diventare una persona diversa, di riabilitare il suo vissuto avendo vista la trasformazione operatasi nella sorella Elli salvatasi con il matrimonio passando da “goffa, pigra, paurosa” ad “allegra, spensierata, coraggiosa” (pag.38), ma l’operazione non riesce, probabilmente anche perché è lui stesso a non volerlo o a non crederci sinceramente.

Nello scritto Kafka si sofferma in particolare su alcuni tentativi tutti falliti di avvicinamento a suo padre. L’ebraismo: “Non capivo come con quel niente di ebraismo di cui disponevi potessi rimproverarmi perché non mi sforzavo di mettere in pratica un simile niente. Era davvero per me un niente, un gioco. In fondo la fede che guidava la tua vita era la fede nell’assoluta giustezza delle opinioni di una determinata classe sociale poiché facevano parte del tuo essere. Era impossibile far capire a un bimbo, il quale per pavidità osservava con grande acutezza, che quelle nullità che tu eseguivi con un’indifferenza proporzionata alla loro nullità potessero avere un senso più elevato” (p.52).

Il secondo tentativo non andò meglio, la scelta professionale in cui l’autore amplia la descrizione che fa di sé lamenta il fatto che gli sia stata lasciata libertà di scelta quando ormai non era più capace di utilizzarla poiché minato da una profonda insicurezza: “Non ero sicuro di nulla e ad ogni istante avevo bisogno di una nuova conferma della mia esistenza, e poiché nulla era in mio possesso, un possesso certo, assoluto, inequivocabilmente determinato da me solo” (pag.52).

Il padre di Kafka volle o semplicemente tentò di inculcare nella testa del figlio il giusto modo di vivere, anche se il suo tentativo educativo era, probabilmente, legato solo alle forme esteriori, all’apparenza dei comportamenti, lasciando così ferite talmente lancinanti nell’anima di uno scrittore sensibile e intelligente come Franz, il quale non riuscì mai a sanare.

Leggendo quest’ opera si percepisce il desiderio di Kafka di essere semplicemente compreso e di essere “un figlio libero, incolpevole, sincero” con un padre “rasserenato, non dispotico, comprensivo, soddisfatto” (pag.65). Si percepisce in maniera vivida tutta la potenza che Kafka trova nella scrittura, unico mezzo espressivo per comunicare i propri sentimenti al padre e forse anche al resto degli uomini. “Nei miei scritti parlavo di te, vi esprimevo quanto non riuscivo a sfogare sul tuo cuore, era un congedo da te volutamente dilazionato, un congedo che avevi messo in moto tu, ma che si dipanava lungo un percorso stabilito da me” (pag.50).

La scrittura di Kafka è di una potenza emotiva dirompente, in Lettera al padre si torna all’origine del tutto, a ipotizzare qualcosa che non funziona o che funziona male. Questa lettera è un documento che in maniera dirompente conduce dentro i meandri spaventosi della mente dell’autore ponendoci di fronte alla domanda che fin dalla sua nascita avvelenò la sua esistenza così come quella di molti altri uomini: Cosa è e da dove viene questa follia che avvelena ogni nostra giornata.

La lettera è un manifesto di ampia portata, riguardante l’umanità intera, che descrive in maniera disperata l’incomunicabilità fra gli esseri umani, per la quale sembra non esserci alcun rimedio. È un libro breve e semplice ma al tempo stesso sconvolgente proprio per la lucidità e l’autoconsapevolezza con il quale l’autore mette nero su bianco tutte le problematicità della sua esistenza; uno scioccante e tragico affresco che illustra il costante dolore che da sempre attanaglia gli uomini.

A cura di Cristopher Palavisini, che per L’Eclettico ha già pubblicato Nick Drake: l’arte della fragilità.

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