Circa il 60% di presenze in meno rispetto al 2019 nelle montagne trentine, l’80% nel Friuli e il 70% nell’Appennino reggiano. Non è solo l’economia balneare a soffrire a causa del Coronavirus, ma anche quella montana, tanto più che se la prima è oggetto di notevoli attenzioni e trattative per possibili riaperture la seconda non gode delle medesime attenzioni.

L’economia di montagna non è, fortunatamente, solo turismo – e anzi potrebbe essere l’occasione per ripensare la frequentazione delle terre alte in maniera ecosostenibile –  anche se questo costituisce comunque larga parte degli introiti per molte comunità.

L’economia alpina si lega alla sussistenza di molte comunità di montagna, alcune delle quali isolate per cui questa situazione potrebbe risultare fatale, e alla loro permanenza nei luoghi di origine: non tenerne di conto significa contribuire allo spopolamento delle terre alte. Un problema rilevante perché comporta la perdita di conoscenze locali, anche linguistiche, e una mancata cura del territorio che rischia così di essere oggetto dello sfruttamento intensivo per il turismo sciistico e/o di massa oppure di essere lasciato a sé stesso, quindi senza vigilanza alcuna. Il paesaggio alpino è, infatti, frutto di una stratificazione secolare in cui natura e azione umana si incontrano: in tal senso le popolazioni montane hanno il compito informale della tutela del territorio, della sua vigilanza e della sua manutenzione, oltre che essere depositari di un patrimonio culturale unico. La scarsa attenzione all’economia di queste aree contribuisce, inoltre, a danneggiare quel processo virtuoso che sta riportando molti giovani nelle terre alte – un processo di sviluppo socioeconomico della montagna che coniuga innovazione e saperi tradizionali, salvando così dallo spopolamento.

Vi è anche il problema dei rifugi, con il tempo divenuti luogo di aggregazione, sono in verità strutture che assolvono anche ad altri compiti. Innanzitutto consentono a migliaia di escursionisti ogni anno di trovare riparo in situazioni di pericolo, spesso salvandoli dalla morte; sono avamposti sul territorio: i rifugisti sono infatti addetti alla manutenzione e alla tutela dei sentieri e vigilano sull’area circostante; sono, inoltre, parte dell’economia di montagna. Non consentire l’accesso per le manutenzioni e non fornire aiuti economici adeguati rischia di paralizzare questa importante rete territoriale e il suo compito di preservazione ambientale. Ma non solo rifugisti, anche i membri del Club Alpino Italiano (CAI) gruppo Tutela Ambiente Montano (TAM) si occupano della manutenzione dei sentieri e della preservazione del territorio. Consentire loro l’accesso è necessario per prevenire i rischi idrogeologici e gli incendi boschivi: i sentieri sono anche linee tagliafuoco.

Apparentemente di minore importanza, la cerchia ristretta di alpinisti di alto livello rientra, in un certo modo, nell’ambito degli sportivi professionisti: non scalare e arrampicare in questo periodo può portare a delle ricadute economiche anche in questo settore. Non solo: gli alpinisti esplorano il territorio, contribuiscono ad ampliare le conoscenze su di esso, collaborano con medici e scienziati fornendo anche utili informazioni per contrastare il cambiamento climatico; sono, inoltre, collaudatori di materiali e indumenti tecnici i quali finiscono poi nel mercato di massa.

Come ha sottolineato anche il Presidente generale del CAI Vincenzo Torti in una lettera indirizzata al premier Conte le nuove misure adottate dal governo non forniscono chiare e sufficienti indicazioni relative alle terre alte. Misure adeguate, come si è visto, sono invece necessarie anche nella speranza che si smetta di considerare la montagna come un parco giochi.

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