Sacchetti ricolmi di spesa distribuiti alle famiglie più povere del quartiere Zen di Palermo. No, non si tratta di beneficenza. Ma di un’iniziativa portata avanti nell’aprile 2020 da Giovanni Cusimano, fratello di Nicolò – capomafia e boss della droga che sta scontando una condanna di 8 anni in carcere come ha raccontato il giornalista Salvo Palazzolo su Repubblica. Il benefattore “disinteressato” del quartiere è stato poi arrestato a gennaio perché ritenuto dalle autorità il nuovo boss dello Zen.  

Questa è una storia di welfare alternativo di stampo mafioso, uno dei modi con cui la criminalità organizzata è riuscita ad arricchirsi e ad accrescere il proprio consenso sociale durante l’emergenza Coronavirus. Già perché la pandemia è presente in Italia da più di un anno e le mafie non stanno a guardare. I momenti di crisi – e quello che stiamo vivendo lo è senz’altro – sono opportunità lucrose per queste organizzazioni. Va poi evidenziato un ulteriore elemento. Ne parlavamo già nel nostro ebook: gli uomini d’onore hanno a disposizione liquidità e risorse ingenti che devono finire in investimenti per consentire il riciclaggio del denaro sporco, che altrimenti non sarebbe possibile usare senza il rischio di farsi notare troppo dalle autorità investigative.

Secondo il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Palermo Piergiorgio Morosini – un magistrato che da molti anni si occupa di Cosa Nostra – l’Impegno delle mafie si è concentrato soprattutto su alcune attività: «il sostegno a giovani bisognosi che hanno perso il lavoro in realtà già depresse, in vista di un loro reclutamento nei ranghi dell’organizzazione; la “caccia”, non solo nelle aree a tradizionale presenza mafiosa, alle aziende in “Stato di necessità”; i nuovi investimenti in settori in crescita (come quello del materiale sanitario monouso); l’indebita acquisizione delle somme stanziate dallo Stato per il soccorso alle imprese in crisi».

Per il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Rahointervistato a gennaio da L’Espresso – i settori di interesse sono quelli «in cui le mafie si sono specializzate sull’onda delle emergenze (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, filiera del ciclo dei rifiuti, imprese di costruzione; ma anche in quelli che appaiono particolarmente lucrosi, come il commercio di mascherine, oltre che il turismo (bar, ristoranti, alberghi)».

Le mafie quindi sono capaci sia di adattarsi alle nuove opportunità economiche che possono emergere durante una pandemia globale, sia a portare avanti attività “tradizionali” che garantiscono facili guadagni. 

Cio è reso maggiormente possibile dalle difficoltà finanziarie di cittadini e imprese fotografate da dati e rapporti usciti in questi mesi. Difficoltà e problemi che riguardano tutta la penisola perché le mafie si sono arricchite ovunque durante la pandemia. Per esempio secondo l’ottavo report sugli effetti dell’emergenza sanitaria, elaborato da Caritas Firenze in collaborazione con Fondazione solidarietà Caritas onlus, la Toscana è stata un terreno fertile durante l’emergenza Coronavirus. Nel report si ricorda che «la pandemia ha contribuito a mettere in luce le fragilità strutturali del sistema sociale e lavorativo: molte persone hanno perso il loro impiego, le disuguaglianze sociali sono in costante aumento» e questo consente alle mafie di «inserirsi e trarne profitto». Spostandoci invece a Nord, a Milano e nelle città lombarde limitrofe, secondo un’indagine del novembre scorso – realizzata da Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza  il 20% degli iscritti del settore della ristorazione ha ricevuto una proposta anomala di acquisto della propria attività, vale a dire nettamente inferiore al valore di mercato. Il numero di offerte è aumentato nel mese di novembre: sono state circa il doppio rispetto a giugno, mese in cui l’associazione di categoria aveva compiuto un’altra rilevazione statistica.  

La scarsità di liquidità consente quindi alle mafie di cogliere nuove opportunità in un contesto di crisi. Occorre però far notare che anche queste organizzazioni criminali possono avere “sofferto” in qualche modo l’emergenza Coronavirus. Pensiamo ad alcune attività che servono ai clan per controllare i territori: estorsione e spaccio di droga nelle piazze. Questi business sono calati senz’altro negli ultimi mesi a causa delle misure restrittive. Tuttavia, come fa notare la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) nella sua relazione relativa al primo semestre 2020   le mafie «hanno cambiato strategia, operando in forma imprenditoriale per entrare sia negli appalti pubblici che nel tessuto economico produttivo rilevando imprese e attività in difficoltà per la crisi».

Le organizzazioni criminali, oltre a dimostrare le loro capacità di adattamento, hanno poi un vantaggio. Da diverso tempo si ha la sensazione che la lotta alle mafie non rientri nelle priorità della nostra classe dirigente. Un’impressione che viene confermata da recenti vicende parlamentari. Il 17 febbraio Mario Draghi era al Senato per fare il suo discorso programmatico sulle azioni del Governo. Il presidente del Consiglio ha parlato di giovani, di donne, di legalità, di Meridione e molto altro. Non ha pronunciato però una parola: “mafie”. Draghi ha poi corretto il tiro in sede di replica menzionando la criminalità organizzata e facendo un riferimento al rischio infiltrazioni per le risorse del Recovery Plan. Un po’ poco per ritenere che il problema della mafie sia in cima ai pensieri di Palazzo Chigi. Ma il suo stesso predecessore non è stato da meno. Il 19 gennaio Giuseppe Conte, infatti, nel discorso che ha tenuto al Senato per la ricerca di una maggioranza in Parlamento dopo la crisi aperta da Matteo Renzi e Italia Viva, ha trascurato il tema mafie. L’ex presidente del Consiglio in sede di replica – una situazione simile a quella di Draghi – ha parlato tardivamente di “virus della mafia” e ha elogiato la figura di Paolo Borsellino  

Se le distrazioni delle istituzioni e dell’opinione pubblica persistono il rischio è che nel combattere un virus presente in Italia da più di un anno ci si dimentichi di una “malapianta” che convive con noi da più di centocinquant’anni.  

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