Sono passati cinquant’anni da quando, nel 1972, su Rai 1 andò in onda Nascita di una dittatura, una trasmissione televisiva realizzata appositamente per il cinquantenario dalla marcia su Roma, scritta e condotta dal giornalista Sergio Zavoli. La trasmissione, che si colloca a metà strada tra il centesimo anniversario della marcia, ebbe un grande successo, con circa 9 milioni di spettatori, e contribuì a consolidare l’interpretazione del primo fascismo – quello dei fasci di combattimento e del programma di San Sepolcro – come un «sovversivismo irregolare di sinistra, libertario, progressista, espressione di una disinteressata politica a favore delle masse», come scrive lo storico Andrea Ventura in Il diciannovismo fascista: un mito che non passa (2021). Un’interpretazione che, allora, ebbe successo, nonostante il disaccordo in merito nella comunità degli storici, anche per la partecipazione a Nascita di una dittatura di uno storico di grande levatura: Renzo De Felice. Nel 1965 aveva pubblicato lo studio Mussolini il rivoluzionario, un volume che aveva suscitato – e continua a suscitare – un vivace dibattito tra gli storici. Nucleo dell’interpretazione defeliciana era lo stesso dell’interpretazione proposta da Zavoli, cioè la nascita del fascismo come un movimento rivoluzionario che era ancora, nel “diciannovismo”, vicino alla sinistra. Una visione che distingue, quindi, tra il fascismo come movimento (il primo fascismo, quello del 1919) e tra il fascismo regime. Nonostante oggi gli studi storici dimostrino i limiti di questa interpretazione, essa continua ad essere quella più diffusa. Per intenderci, è alla base del romanzo storico di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo (2018) che ripropone la divisione tra una fase rivoluzionaria e poi una fase propriamente fascista.

Il rischio dell’interpretazione pubblica derivata da De Felice è quello di perdere di vista il contesto storico in cui il fascismo nacque e si sviluppò. Detto in altri termini, si rischia di leggere l’avvento del fascismo come un “evento”:  un avvenimento che segna l’irruzione dell’irripetibile nella catena del tempo e che, come tale, non ha nessun antecedente con cui può essere confrontato. In tal senso, il solo modo di dare profondità storica all’evento è affidargli un senso teleologico, cioè una narrazione che lo carichi di significato – un fenomeno comune nei mass media. Per anni in Italia, anche nella comunità degli storici, ci si è concentrati soprattutto sullo squadrismo del 1920 – 1922, poco invece sull’ideologia e la prassi fascista del 1919, favorendo così l’interpretazione del primo fascismo come di un movimento rivoluzionario, vicino alla sinistra in quanto antiborghese, rinnovatore e sensibile alle esigenze del popolo e dei contadini. Ciò era coincidente con una lettura di Mussolini, soprattutto anche nei primi anni Novanta, come rivoluzionario solitario, autonomo dai partiti forti, eroe coraggiosoUn’interpretazione, frutto di una lettura presentisca del contesto degli anni Novanta, che tende a confondere la divisione tra destra e sinistra, favorendo l’ascesa di una categoria antistorica quale “fasciocomunismo”.

Come diversi studi hanno dimostrato, vi è un processo storico in cui il fascismo è nato. Un terreno in cui si incontravano il futurismo, la mancata condanna dei giornali e dell’opinione pubblica della violenza politica retorica sia precedente che successiva alla Prima guerra mondiale. In questo contesto, e già nell’epoca dei moti unitari dell’Ottocento, l’esaltazione della violenza e della guerra erano diffuse, parte del discorso nazional-patriottico. C’era, quindi, un humus socioculturale che si intrecciava con il regime liberale e la classe economica, che sarebbe poi divenuto favorevole al fascismo. L’esatto contrario, insomma, di quello che l’idea del Mussolini rivoluzionario promuove. In tal senso, il fascismo è sempre stato un movimento estraneo alla sinistra: c’è una differenza tra il dato biografico di Mussolini – l’essere stato iscritto al Partito socialista – e la realtà delle mentalità e delle motivazioni che portarono alla nascita del fascismo proprio perché sin dalle sue origini (1919) esso era ultranazionalista, corporativista (l’idea che gli interessi dei padroni e degli operai siano gli stessi è agli antipodi della sinistra), xenofobo e imperialista antisocialista, insofferente alle dinamiche parlamentari e sovversivo. Già lo storico Roberto Vivarelli nel primo volume di Storia delle origini del fascismo (1967, ripreso e ripubblicato nel 1991) individuava nella mobilitazione paramilitare, antisocialista e nazionalista l’essenza di un’ideologia politica agli antipodi dei movimenti e dei partiti di sinistra allora presenti, distinguendo tra «apparenza» e «sostanza» del movimento sansepolcrista e quindi primo fascista

Sempre contestualizzandonell’Italia appena uscita dalla Grande Guerra e della «vittoria mutilata» tra i reduci era diffusa l’idea che l’Italia si fosse persa, avesse perso sé stessa, la sua identità, la sua direzione. Come se si fosse negata, tradita rispetto ai suoi ideali. E ciò lo si motivava per la presenza, in tal senso, di corpi estranei alla Nazione: bolscevichi, pacifisti e neutralisti, giolittiani e via dicendo. Mussolini – che uscì dal Partito socialista nel 1914 in disaccordo con la posizione non interventista del partito e, a suo dire, poco patriottica –rispose alla crisi dell’epoca affermando dei valori tradizionali e patriottici innestandosi su una matrice retorica già presente nel Risorgimento – questo non significa che tra questo e il fascismo ci sia stata una filiazione diretta, tutt’altro – che, oltre a prevedere la retorica del sacrificio, prevedeva anche il martirio per la rinascita, attraverso la violenza, della Nazione e del suo popolo. Una redenzione dopo “secoli di buio”, come del resto fu l’Italia, nell’immaginario risorgimentale, prima di essere unita. Nel farlo Mussolini irrigidì ai massimi estremi  e in maniera irreversibile la matrice discorsiva dei confini biopolitici della Nazione da cui quest’ultima può trarre rigenerazione. Rigenerazione e biopolitica sono infatti gli aspetti fondamentali, assieme all’individuazione del nemico oggettivo che chiarisca, spieghi e definisca non solo il nome del sacrificio che si andrà a compiere, ma anche la causa della rigenerazione, dei mali della Nazione. In tal senso, il fascismo è stato da sempre un’ideologia violenta ed esclusivista fondata sulla paura assieme ad una lettura storica politicizzata ed estetizzata che si sublima e sussume in un presentismo di fatto

Oltre a quanto detto fino ad ora, vi sono studi che dimostrano, sulla scorta del rivoluzionario e anticipatorio volume di Karl Polanyi La Grande trasformazione (1944), il nesso tra capitalismo e nascita del fascismo. Rimanendo, comunque, su quanto detto fino ad ora, fu solo negli anni Ottanta e, soprattutto, nei Novanta che l’interpretazione defeliciana venne parzialmente messa in crisi grazie anche ai lavori dello storico Enzo Collotti. Questi adottava un punto di vista diverso rispetto a quello di De Felice, basandolo sulla comparazione e sullo sguardo internazionale – come nel volume Fascismo, Fascismi del 1986. Anche per gli argomenti di cui Collotti si occupava (lo sterminio degli ebrei e l’occupazione tedesca dell’Italia), lo storico criticò De Felice per la deresponsabilizzazione parziale del fascismo sulle leggi razziali che, come altri studi dimostrano, non fu un fenomeno estemporaneo o consequenziale all’alleanza con la Germania nazista e all’isolamento dell’Italia, ma congenito nella nascita del fascismo stesso, proponendo quindi di collocare la storia del fascismo all’interno della più ampia storia delle persecuzioni antiebraiche. Collotti, inoltre, si impegnò molto per una maggiore apertura degli archivi che sono il luogo dove gli storici trovano le fonti con cui ricostruiscono il passato e che in Italia non solo sono spesso disorganizzati, complice anche l’assenza di fondi, ma anche di difficile accesso – talvolta, come nel caso dei Carabinieri, della polizia e dell’esercito pressoché nullo per il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale – e con una legislazione lacunosa e farraginosa che disincentiva la trasparenza e la ricerca. Sempre sulle fonti, Collotti criticò a De Felice ciò che moltissimi storici oggi gli criticano, cioè l’utilizzo eccessivo di documenti di stessa matrice – De Felice, che peraltro comprò alcuni archivi di gerarchi fascisti, ricorse soprattutto a fonti di polizia. 

La nascita del fascismo fu, quindi, tutt’altro che un evento rivoluzionarioIl mito di Mussolini rivoluzionario è, per l’appunto, un mito. Cento anni dopo la marcia su Roma molti sono molti i nodi che permangono in Italia, causa e conseguenza delle difficoltà del fare i conti con il passato, complice anche la continuità tra Stato fascista e Italia repubblicana – una continuità delle leggi, delle istituzioni, delle persone, delle mentalità e delle pratiche. Problemi che rendono difficile anche portare le conclusioni della ricerca nel dibattito pubblico, comprese quelle sulla guerra in Italia durante l’occupazione tedesca come una guerra civile, patriottica e di classe, come la definì lo storico Claudio Pavone in uno studio rivoluzionario del 1991: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.

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