Voleva una Sicilia con “le carte in regola”, lontana da scandali e abusi edilizi, da infiltrazioni mafiose e clientelismo politico. Piersanti Mattarella, esponente della Democrazia Cristiana vicino ad Aldo Moro, favorevole a un’apertura al Partito Comunista Italiano, si sedette sullo scranno più alto di Palazzo D’Orleans nel 1978. Ma venne ucciso soltanto due anni dopo: non fece in tempo a realizzare i buoni propositi di governo e trasparenza pubblica. Qualcuno temeva l’impegno, la dedizione e l’onestà di Mattarella, un politico che voleva rinnovare una classe dirigente locale che per troppo tempo aveva governato sotto i condizionamenti mafiosi.
6 gennaio 1980: nel centro di Palermo, un killer dagli “occhi di ghiaccio e l’andatura ballonzante” – la descrizione è della moglie, Irma Chianese – sparò alcuni colpi di pistola al presidente della Regione Sicilia, appena salito a bordo della sua Fiat 132. Piersanti Mattarella stava uscendo con la moglie e i due figli per andare a messa. Era privo di scorta, che rifiutava sistematicamente nei giorni festivi.
“Sgomento”, titolò il quotidiano “L’Ora” l’edizione straordinaria scritta in poche ore e distribuita per le vie di Palermo[1]. Sgomento provò senz’altro il fratello Sergio, quando tirò fuori il corpo di Piersanti dalla macchina – la scena è stata immortalata da un scatto di Letizia Battaglia.
Sono passati quarant’anni dall’omicidio e lo sgomento è stato sostituito dall’amarezza e dallo scoramento: non si conosce ancora il volto del killer “dagli occhi di ghiaccio” che uccise il fratello di Sergio Mattarella – all’epoca professore di diritto, oggi presidente della Repubblica.
Il caso Mattarella è uno dei tanti misteri d’Italia, un buco nero della nostra storia repubblicana. Antonio Calabrò, caporedattore de “L’Ora” durante gli anni della “seconda guerra di mafia”, lo ha definito “un caso Moro” siciliano, una storia “in cui convergono mafiosi, politici, interessi economici, reazioni al rinnovamento che da Palermo può investire Roma”[2].
Il presidente della Regione Sicilia, con gesti precisi – nel 1978 dopo l’omicidio di Peppino Impastato si recò a Cinisi dove tenne un discorso contro Cosa Nostra – e iniziative politiche – contrastò l’ascesa di Vito Ciancimino, il referente politico dei Corleonesi all’interno della DC siciliana – si era impegnato a contrastare la criminalità organizzata. Mattarella portava avanti un’opera di modernizzazione dell’amministrazione regionale che puntava a recidere qualsiasi legame con la mafia. Il paradosso? Il suo impegno metteva in discussione la famiglia di sangue e il partito di riferimento. Il padre Bernardo – notabile di Castellamare del Golfo e più volte ministro DC nei governi del Secondo Dopoguerra – era un politico molto chiacchierato per le sue frequentazioni. Nel corso degli anni ‘60 il sociologo Danilo Dolci lo accusò di collusioni mafiose, anche se poi l’accusa finì in tribunale e Dolci venne condannato per diffamazione.
La Democrazia Cristiana rappresentava invece il perno di un sistema basato sul rapporto tra il partito e Cosa Nostra. Un legame pericoloso maturato in oltre trent’anni di esercizio comune del potere locale.
Piersanti Mattarella con i suoi buoni propositi e il suo modo di fare politica costituiva una mina vagante, una mosca bianca per la Sicilia del 1980. In realtà il suo progetto di rinnovamento politico precorreva i tempi, visto che ci saranno altri dirigenti DC a raccoglierne l’eredità. Oltre al fratello Sergio – che scese in politica all’indomani dell’omicidio – il nome che va citato è quello di Leoluca Orlando. Il sindaco della “Primavera di Palermo” (1985 – 1990) faceva parte dello staff del presidente della Regione. Come nel caso di Piersanti Mattarella, apparteneva a una generazione di politici che vivevano con difficoltà il rapporto con le clientele mafiose.
L’eredità politica è stata raccolta, la figura esemplare celebrata. Ma rimangono ancora molte domande e poche risposte dietro a quel “cadavere eccellente”. I boss mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Giuseppe Calò e Nené Geraci vennero condannati nel 1995 in via definitiva come mandanti dell’omicidio Mattarella.
“L’indagine è estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Le parole sono di Giovanni Falcone e risalgono al 1988, quando il giudice palermitano venne convocato dalla Commissione Parlamentare Antimafia – l’audizione è stata resa pubblica dalla Commissione qualche settimana fa. In quel momento Falcone stava svolgendo indagini su un paio di terroristi neofascisti indiziati dell’uccisione di Piersanti Mattarella: al vaglio c’era l’ipotesi di una convergenza d’interessi, di una connessione tra estremismo nero e Cosa Nostra.
Quarant’anni dopo l’ipotesi di Falcone è sui banchi della Procura di Palermo, che, nel gennaio 2018, ha riaperto un’inchiesta sulla base di nuovi elementi mai analizzati e che vanno nella direzione del terrorismo nero. La caccia al killer continua, il mistero d’Italia permane.
[1] Cit. in Antonio Calabrò, I mille morti di Palermo. Uomini, donne e vittime nella guerra di mafia, Mondadori, Milano, 2016, p. 57.
[2] Ibid., p. 62.
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.