Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del consiglio – il presidente della “vittoria” nella Grande Guerra – era orgoglioso di essere mafioso. Se per mafia si intende “il senso dell’onore portano sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole e la fedeltà alle amicizie”[1].

L’uomo politico palermitano, che sedette al tavolo delle grandi potenze alla conferenza di pace di Parigi del 1919, con quell’affermazione riproponeva uno stereotipo all’epoca largamente diffuso.

La mafia? Non esiste. Si tratta nientemeno di orgoglio, coraggio e resistenza ai soprusi. Caratteristiche che risiederebbero nella popolazione siciliana da tempo immemore. “Ipertrofia dell’io”, l’aveva definita anni prima Giuseppe Pitrè. Il grande etnologo riteneva che la mafia non fosse una setta e nemmeno un’associazione segreta: “non ha regolamenti né statuti”[2].
La mafia rappresentava “l’esagerato concetto della forza individuale” tipico di certo popolani e “la coscienza d’essere uomo, sicurtà d’animo e in eccesso di questa, baldanza, non mai braceria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza”[3]. Il mafioso non è un ladro e nemmeno un malandrino. Secondo Pitrè la parola omertà (parola chiave per capire la mafie) deriverebbe dalla radice uomo e significherebbe rispondere “da sé alle offese senza ricorrere alla giustizia sociale”[4]. Un’interpretazione tra cultura e tradizione, che si collocava in una sfera nella quale i valori prevalgono sui disvalori.

Come ha notato lo storico Paolo Pezzino, la riduzione della mafia a carattere dell’ethos siciliano ha portato a un utilizzo strumentale della parola, “ogni qualvolta le vicende della lotta politica lasciassero spazio alle rivendicazioni del sicilianismo e all’esaltazione dei caratteri originari dei siciliani”[5].

All’indomani della condanna di Raffaele Palizzolo (1902) – deputato palermitano in odor di mafia – accusato di essere il mandante dell’omicidio di Emanuele Notarbartolo, nacque il Comitato Pro – Sicilia. Aveva un obiettivo: mobilitare l’opinione pubblica in favore dell’innocenza del politico chiacchierato. Le accuse contro Palizzolo e, più in generale, le polemiche sulla mafia, sarebbero state il frutto di un pregiudizio anti – siciliano. Tra i membri del Pro – Sicilia figurava anche Pitrè, che partecipò alla stesura del manifesto del Comitato (1902). L’etnologo inoltre era nell’elenco dei testimoni del processo Notarbartolo, dove depose in favore di Palizzolo. Per Pitré non si parlava della Sicilia “senza parlare di mafia, e mafia e Sicilia sono la stessa cosa”. Trovava tutto questo “abnorme”, ritenendo che la Sicilia fosse “sempre stata la cenerentola delle fortunate sorelle del Continente”. La popolazione isolana sarebbe stata “messa al bando, quasi razza inferiore, indegna di sedere al convitto della medesima famiglia”[6] .

Ma a rivelarsi abnorme (e duratura) fu senz’altro l’influenza del paradigma di Pitré, che riduceva la mafia a comportamento e a specificità isolana. E che veniva utilizzato dagli stessi mafiosi.

Quasi novant’anni dopo, Luciano Liggio, boss corleonese e “mentore” di Totò Riina, rilasciò un’intervista a Enzo Biagi. Il capomafia, da tempo rinchiuso in prigione, rispose alle domande del giornalista. Alla domanda “che cos’è la mafia?, Liggio disse che si trattava di “fandonie” e che non ne sapeva niente. Precisando però: “leggendo vari autori che hanno parlato su ‘sta parola “mafia”, e rifacendomi al Pitré, che è uno dei grandi cultori della lingua antica siciliana, “mafia” doveva essere una parola di bellezza, come bellezza non solo fisica, ma anche fisica come spiritualità”.  Biagi a quel punto chiese: “se è così, lei non si offende se io dico il mafioso Liggio? E lui: “no, non mi offendo..semplicemente mi duole, credo che non ho tutta quella ricchezza spirituale e fisica di esserlo un mafioso, insomma di essere ricchezza spirituale nel senso bello della parola” .

Il boss corleonese riadattava alle sue convenienze le teorie di Pitrè, per richiamarsi a valori alti quali famiglia, onore e tradizione. L’utilizzo di quel paradigma gli era ancora concesso. L’intervista di Biagi a Liggio porta una data: 1989. Cioè due anni dopo la sentenza di primo grado del Maxiprocesso e tre anni prima del verdetto della Cassazione, che confermò il lavoro svolto dal pool antimafia di Falcone e Borsellino. In quegli anni era ancora possibile – seppur con difficoltà e meno credibilità rispetto ai tempi di Pitrè e Palizzolo – negare la natura associativa della mafia siciliana e la sua esistenza stessa. Ma una volta che la sentenza del Maxiprocesso passò in giudicato (30 gennaio 1992),  divenne arduo perfino per i mafiosi parlare di “bellezza” mafiosa, resistenza ai soprusi e pregiudizi “anti – siciliani”. Negare l’evidenza diventò impossibile.  

[1] Cit. in Salvatore Lupo, La Mafia. Centosessant’anni di storia, Donzelli, Roma, 2018, p.110.

[2] Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano, Il Vespro, Palermo, 1889, p.292.

[3] Ibid., pp. 290 – 294.

[4] Ivi.

[5] Paolo Pezzino, Stato, violenza, società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, p. 928 in La Sicilia, a cura di M. Aymar e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino, 1997.

[6] Cit. in Lupo, La mafia, p. 69.

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