C’è una fenomeno preoccupante che il coronavirus fa emergere con estrema lucidità: il nazionalismo, spesso tendente allo sciovinismo più gretto, condito di una forte dose di campanilismo.
Per certi aspetti sembra d’essere tornati alla ricerca dell’untore: questa ossessione per il paziente zero, al di là dell’utilità medica, sembra infatti nascondere la ricerca del colpevole, come a dire «noi non c’entriamo». Prima i cinesi, verso cui si è scagliata ogni forma d’odio, poi gli italiani, infine i tedeschi.
Ma non è solo questo folkloristico passatempo ad essere preoccupante. Appunto, è il rafforzarsi del nazionalismo che porta alla chiusura delle frontiere, a “stigmi sociali” verso coloro che sono considerati untori, di nuovo cinesi, italiani e in parte tedeschi.
In Italia tutto questo si accompagna ad un senso di frustrazione: l’ennesimo affronto da un mondo ingiusto che non capisce gli italiani. Ciò che si può definire come “sindrome della vittoria mutilata”. Questo senso di inferiorità e di ingiustizia che la penisola patisce lo scarica sull’esterno, essendo l’Italia un paese spesso privo della benché minima capacità di autocritica, e viene sfruttato da alcuni leader oggi come in passato. Ci si scaglia così contro i soliti «nemici»: i francesi, in primis, in secondo luogo i tedeschi come se nulla fosse cambiato dal 1918. Ciò anche perché chi abita in Italia non è spesso abituato a confrontarsi con le culture europee che lo circondano. Non è solo provincialismo, ma vero e proprio senso di superiorità rispetto agli altri. I francesi ci deridono, sostengono in molti, riferendosi al video sulla pizza – corona. A vedere bene il video, però, non c’è nulla di offensivo, è soltanto satira. Secondo “La Repubblica” il video «rischia di far scoppiare un caso diplomatico con la Francia», come se dell’ironia fosse paragonabile a certe gaffe dei Cinque Stelle, e che prontamente è stata cavalcata da uno degli autori di quelle gaffe: Luigi Di Maio. Sulla pizza-corona è l’ennesima figuraccia che l’Italia fa con il suo provincialismo e i suoi politici pronti a sfruttare frivolezze come questa per racimolare attenzioni. Groland fa satira, la satira irrita chi ne è soggetto ma non dovrebbe offendere perché, appunto, è satira. In Italia non si è abituati a questo genere di intrattenimento, piuttosto si preferisce la comicità, come quella di Crozza, che conferma in certe opinioni e rassicura perché si sa a che cosa si va incontro, senza così mettere in dubbio le proprie convinzioni e abitudini. La satira, invece, risulta pesante perché non la si conosce; essa va contro ogni forma di potere, non rispetta nessuno, non dice ciò che ci si aspetta, piuttosto deride le aspettative portando a riflettere su ciò che mette in luce. E l’Italia, una volta ancora, ha fatto la figura della “pizza-mandolino-babbà”. Subito indignandosi per la grande onta subita, per la grande offesa al suo cibo, identificando così l’identità nazionale con il mangiare: se all’estero la satira sull’Italia la fanno con la pizza tutti i torti non li hanno. Ma comunque vittoria! Il video è stato cancellato.
In Francia, invece, la satira è un genere che va molto, si pensi a Charlie Hebdo che in Italia, una volta “conosciuto”, ha scandalizzato ed è stato perciò vituperato. Mi riferisco alla vignetta su Amatrice che molto scandalizzò, probabilmente perché il sottotesto di molti italiani, ma è soltanto un’impressione, era il seguente: «dopo tutta la solidarietà che gli abbiamo dimostrato, ci aspettavamo un po’ di rispetto da parte loro!». Come a dire che se si è stati solidali lo si è fatto, in fin dei conti, per trarne un vantaggio, non in nome di un’azione disinteressata. Ma, appunto, la satira è dissacrante e molti hanno preteso di difenderla con il famoso «je suis Charlie».
Arriviamo infine agli ex giocatori di rugby che, allegando il testo con una foto vestito di azzurro, occhi commossi, tricolore tra le mani, chiedono «umilmente al Presidente della Repubblica di intervenire. Come? Semplicemente con un discorso alla Nazione, magari a reti unificate come fa per inizio anno. Che ci supporti e faccia sentire la sua voce. Chiedo agli italiani di rimboccarsi le maniche: comprate italiano; fate vedere a questi chi siamo [francesi, americani, l’Europa dei “burocrati”]. Cominciate a disdire i vostri viaggi all’estero e riempite i nostri alberghi; vestiamoci con le nostre eccellenze affinché gli italiani comprino italiano».
Il nazionalismo che trae nuova linfa dall’emergenza del coronavirus è un argomento che dovrebbe preoccuparci perché, per l’appunto, si tratta di un riemergere di una tematica che rimaneva nascosta, come la polvere sotto al tappeto, ma saldamente ancorata nel tessuto sociale. Per affrontare un problema simile sarebbe necessario fare autocritica, pensare a che deficit gli italiani scontano con loro stessi, un deficit che li porta ad essere sempre sul chi vive e a provare un senso di vittoria mutilata. Un deficit dovuto, probabilmente, all’ignoranza e al campanilismo della penisola che rifiuta di aprirsi al mondo e di essere cosmopolita al di là delle sdolcinate ed insopportabili retoriche sull’accoglienza dei meridionali. Un compito che spetterebbe al paese intero, se solo non continuasse a mettere la testa dentro la sabbia, rifiutandosi di accettare di avere dei problemi, premessa necessaria per ogni miglioramento. Forse ciò gli consentirebbe di essere vicino a chi è obbligato ad andarsene perché in un contesto socio-politico asfissiante, gli permetterebbe di dedicare la propria attenzione a problemi egualmente importanti al pari del coronavirus, come la crisi dei migranti al confine con la Grecia, ma con cognizione di causa, senza cercare lo scarica barile.
Immagine di copertina a cura di Elia Sampò, altre sue immagini potete trovarle a questo link.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.