Le «transazioni» e le «relazioni amichevoli» fra uomini dello Stato e mafiosi erano questioni fortemente discusse nell’Italia di fine Ottocento. Soprattutto negli anni del processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo ed ex direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1 febbraio 1893 dalla cosca mafiosa di Villabate su mandato del deputato palermitano Raffaele Palizzolo (anche se poi finirà assolto nell’ultimo grado di giudizio).
Sull’onda del processo Notarbartolo l’intellettuale siciliano Napoleone Colajanni pubblicò «Nel Regno della Mafia» (1900), un «instant book» che si scagliava contro lo Stato e le sue articolazioni periferiche, colpevoli di aver legittimato la mafia come strumento di governo locale e di lotta politica.
Nato a Castrogiovanni (l’odierna Enna) il 28 aprile del 1847, figlio di proprietari di miniere di zolfo e laureato in Medicina, Colajanni partecipò assiduamente alla vita politica del paese. Democratico e repubblicano, mazziniano e garibaldino, venne eletto deputato al Parlamento a partire dal 1890. Nel 1895 figurava tra i fondatori del Partito Repubblicano Italiano.
In «Nel Regno della Mafia», l’uomo politico siciliano fornì una sua personale interpretazione del fenomeno criminale:
«La mafia in Sicilia sotto i Borboni divenne l’unico mezzo per gli umili, pei poveri, per lavoratori per essere temuti e rispettati, per ottenere la forma di giustizia ch’era compatibile in quelle condizioni e che non era possibile ottenere con forme legali. E alla mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime (….) Su questo sfondo di giustizia sociale che servì a creare lo spirito della mafia e dette corpo alle sue manifestazioni s’intende che si innestarono tutte le tendenze perverse, tutte le passioni losche, tutte le cause e gli incidenti della delinquenza volgare. Ma nell’insieme essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici»[1].
Per l’intellettuale siciliano la mafia si sarebbe manifestata nel periodo borbonico come forma di autodifesa di matrice popolare: la violenza, la vendetta privata e il codice dell’omertà – il silenzio rispetto ai nemici e ai pubblici poteri – come risposte al malgoverno dello Stato e ad una articolazione economico – sociale, incentrata sul latifondo, provocatrice di ingiustizie sociali che gravavano soprattutto sul mondo contadino.
Colajanni scriveva poi come non «sempre la mafia ha come scopo il male; talora, anzi non di rado, si propone il bene, il giusto; ma i mezzi che adopera sono immorali e criminosi».
Il delitto mafioso aveva una sorta di genesi sociale, non antropologica. Le associazioni criminali ne sarebbero state una manifestazione («lo spirito che la informa facilmente può generare le cosche, le fratellanze, che sono state vere società di delinquenti»). La piccola proprietà contadina, al contrario, avrebbe potuto essere l’antidoto al problema. Secondo l’uomo politico siciliano una riforma agraria si sarebbe rivelata utile. Non è un caso che, al tempo dei Fasci siciliani (1891 – 1894), Colajanni notò come ci fu una diminuzione dei reati nelle zone dove queste organizzazioni erano state più radicate e attive nel veicolare una redistribuzione delle terre ai contadini[2].
Egli inoltre affiancò alle precedenti osservazioni una durissima accusa contro lo Stato, borbonico prima e sabaudo poi, che in Sicilia avrebbe concesso «mezza libertà» ai cittadini e «mezza autonomia» agli enti locali, disinteressandosi di curare l’amministrazione della giustizia, interessandosi soltanto a reprimere con la forza le manifestazioni di dissenso e dedito a scendere a patti con i violenti, legittimandoli e usandoli soprattutto a fini politici.
Nelle vicende legate all’omicidio Notarbartolo, Colajanni denunciò le carenze nelle indagini, i depistaggi, le connivenze e le relazioni della questura di Palermo con il deputato Raffaele Palizzolo. Inoltre, da osservatore attento dei dibattimenti giudiziari del processo, notò come il silenzio di molti testimoni siciliani dinanzi alle domande di un magistrato era figlio di una «morale speciale», una sorta di «spirito di mafia», un codice culturale difensivo, alimentato dalla sfiducia nelle istituzioni e rafforzato senz’altro dalla paura per la violenza mafiosa e per l’utilizzo strumentale che veniva fatto dalle autorità dello Stato, visto che, «la mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, né invincibile per sé, ma perché è strumento di governo locale»[3].
Nelle pagine conclusive del suo libro Colajanni esprimeva (amaramente) la possibile soluzione:
« (…)per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia! Ma esso ha preso troppo gusto ad esercitare quella sua disonesta e illecita potestà; è troppo esercitato e indurito nel male. (….) Il regno della mafia in Sicilia non cesserà se non il giorno in cui con una vera instauratio ab imis i siciliani acquisteranno la libertà vera, il diritto e i mezzi di punire i prepotenti, di mettere alla gogna i ladri e di assicurare a tutti la giustizia giusta![4]
«Nel Regno della Mafia» ha un bersaglio preciso (e politico): l’amministrazione centrale dello Stato Italiano, «erede della malapolitica borbonica». Secondo Colajanni a Roma erano interessati a servirsi della mafia come strumento di governo locale. La «malapolitica» nazionale finisce quindi sul banco degli imputati. Tuttavia, l’uomo politico siciliano sottovalutò le responsabilità dei mafiosi, non meri esecutori, ma soggetti capaci di agire autonomamente e svolgere più ruoli o funzioni, e le responsabilità delle élites isolane, ancora oggi protagoniste di scandali e interazioni politico-mafiose.
Il libro di Colajanni ha il merito di contribuire ad accendere i riflettori del dibattito pubblico dell’epoca su una questione cruciale per la democrazia italiana: il rapporto tra rappresentanti delle istituzioni e mafiosi. Una questione ancora aperta, complessa e attuale.
[1] Napoleone Colajanni., (a cura di) Gianluca Fulvetti, Nel regno della mafia (dai Borboni ai Sabaudi), Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, p. 44.
[2] Napoleone Colajanni, Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, Sandron, Palermo, 1896, p. 371.
[3] Colajanni, Nel regno della mafia, p. 78.
[4] Ibid., p. 95.
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