11 settembre 2001, primo pomeriggio. Improvvisamente le immagini alla televisione cambiano: il paesaggio mite e rassicurante della Melevisione e la voce calma e gentile di Tonio Cartonio lasciano spazio alle Torri Gemelle in fiamme e agli aerei che si stanno schiantando. Poco dopo le due torri crollano, sollevando un mare di cenere. Le persone fuggono per strada, il sangue sui loro volti grigi per il fumo e le ceneri, urlano. I giornalisti non sanno bene come commentare. È la diretta di una tragedia che anche un bambino avverte come tale e che lo atterrisce, privandolo per la prima volta dell’innocenza: la violenza è parte di questo mondo e può colpire tutti, indiscriminatamente e in qualunque momento.

Quello dell’11 settembre è un ricordo vivido e comune tra chi, come me, è nato negli anni Novanta: in molti stavamo guardano quel noto programma per bambini che andava in onda su Rai 3. Le immagini delle Torri Gemelle avevano interrotto la Melevisione improvvisamente. All’inizio non capivamo, forse si trattava di un film. Ci girammo verso i nostri genitori e leggemmo nei loro volti qualcosa di simile allo stupore, ma più intenso e dilaniante. Lentamente, aiutandoci con i commenti dei giornalisti e le spiegazioni dei nostri genitori capimmo  – perché per comprendere il terrorismo islamico, o jihadismo, sarebbe servito ancora del tempo – che si trattava di un atto di terrorismo e che dietro c’era Al Qaeda. Non molto, ma è comunque così che molti bambini tra i quattro e i dodici anni vennero a conoscenza del terrorismo.

Vent’anni dopo l’11 settembre e il ritiro precipitoso dall’Afghanistan delle truppe statunitensi e alleate vale la pena domandarsi che cosa rimane oggi del terrorismo jihadista, quali sono (se ci sono) le conseguenze rispetto alla nostra quotidianità, nostra vita.

Almeno da un punto di vista il terrorismo ha raggiunto uno dei suoi scopi, cambiando la quotidianità e la psiche di molte persone. Quando c’è la consapevolezza che un attacco può veramente avvenire in ogni momento, infatti, la paura e gli stereotipi entrano subdolamente nei nostri pensieri. Le lenti che utilizziamo ogni giorno per osservare ed interpretare la realtà mutano, senza che ce ne rendiamo conto. E così anche il giudizio verso gli altri, il modo in cui frequentiamo certi luoghi, le mete dei viaggi che scegliamo. Un cambiamento che forse oggi in Italia e in certe zone del paese può apparire meno invasivo, ma che si palesa ogni qual volta sentiamo o ci ricordiamo di un attentato, quando dobbiamo passare dai controlli, come all’aeroporto prima di prendere un aereo. Che lo si avverte quotidianamente nelle grandi città europee come Parigi, Londra o Berlino, dove i protocolli antiterrorismo scandiscono gli ingressi nelle biblioteche, nelle università e in molti altri luoghi di lavoro, studio e convivialità, fino alla metropolitana, spesso bloccata per allarmi bomba. Ma anche nelle città d’arte italiane, come Firenze o Pisa, dove sostano i militari dell’operazione strade sicure, all’erta anche per contrastare la minaccia terroristica e che di nuovo nelle metropoli pattugliano le strade in gruppi di sei o otto, armati fino ai denti, come se Parigi fosse Kabul. Lo stato di emergenza è divenuto la normalità, l’esercito non difende più i confini ma si adatta ad una minaccia invisibile “tra noi”, quella del terrorismo, facendo sì che le forze armate si intreccino sempre più con le forze di sicurezza creando una sovrapposizione di competenze che porta alla militarizzazione della polizia.

Ciò che contraddistingue un attentato terroristico è l’essere una costruzione di un evento politico dall’elevato contenuto simbolico, capace di rappresentare idealisticamente una lotta assoluta tra il bene e il male. È una visione nichilistica e manichea del mondo in cui la violenza ha un valore rigenerativo in quanto “epura” la società dagli elementi “impuri” ed in ciò considera lo Stato e chi ne fa parte in maniera organicistica, cioè come una realtà unica e omogenea. Ma è anche un’azione dal valore pedagogico esclusiva. L’atto terroristico palesa infatti chi è fuori dalla comunità, mostrando a chi ne fa parte che ogni azione che contravviene alle norme è severamente punita. È anche pedagogia della violenza: i terroristi sono martiri che conformano le loro azioni al volere di Dio o dell’ideologia. Un tipo di educazione che non vuole mostrare la via giusta solo ai membri della propria comunità, garantendosi così schiere di combattenti pronti a dare la propria vita, ma che si rivolge anche al nemico obbligandolo a cambiare i propri stili di vita e di pensiero. Di fatto una disciplina fondata sull’impossibilità di verificare la presenza dell’attentatore, di poter essere al sicuro. Pur essendo un evento che squarcia la quotidianità, infatti, l’attentato non appartiene solo alla sfera dell’inatteso, poiché la sua possibilità è prevista. Utilizzando una metafora, l’eventualità di un attentato è come un sorvegliante di cui non possiamo mai verificare l’effettiva presenza. Non potendo essere certi che il guardiano sia presente, che l’attentato si verifichi, ci comporteremo come se il sorvegliante fosse sempre presente. Così con l’eventualità dell’attentato: la quotidianità deve mutare perché il terrorista è un nemico che non ha bandiera né uniforme e non combatte solamente nei campi di battaglia, ma anche nelle città. Come riassume bene il personaggio di M, il capo dei servizi segreti britannici nella serie degli 007, nel film Skyfall (2012):

Well, I suppose I see a different world than you do, and the truth is that what I see frightens me. I’m frightened because our enemies are no longer known to us. They do not exist on a map, they aren’t nations. They are individuals. And look around you – who do you fear? Can you see a face, a uniform, a flag? No, our world is not more transparent now, it’s more opaque! It’s in the shadows – that’s where we must do battle.

Il terrorismo jihadista non è un fenomeno che nasce con l’11 settembre, né si ferma al 2001 come la storia recente ha tristemente mostrato con i molti attentati che si sono susseguiti negli anni. Ha una storia lunga e complessa in cui non sempre è facile sintetizzare gli interessi e le posizioni dei soggetti in campo, trattandosi spesso di attori tra di loro eterogenei – si pensi, ad esempio, al fatto che ISIS e talebani siano avversari, così come Al Qaeda e ISIS. Come nota lo storico norvegese Odd Arne Westad nel volume The Global Cold War (2005), pur essendo terminata la Guerra Fredda, molte pratiche e problemi irrisolti della Guerra Fredda sono sopravvissute ad essa e si sono protratte durante gli anni Novanta per arrivare ai giorni nostri. Diverse di queste questioni, in paesi apparentemente periferici come l’Afghanistan, sono rimaste lontane dai riflettori della high politics statunitense fino ad esplodere. L’Afghanistan e l’Iraq sono i casi più eclatanti: in entrambi i paesi il problema era iniziato con la Guerra Fredda e si era trascinato anche lungo gli anni Novanta. Solamente l’Iraq aveva ricevuto delle attenzioni e degli interventi chirurgici prima del 2003.

Il terrorismo jihadista non è un “figlio” dell’Occidente. Una tale visione è orientalista, cioè frutto di stereotipi che vedono nel Medio Oriente un luogo arretrato e barbaro, a differenza dell’Occidente. Detto in altre parole è una visione che si disinteressa delle specificità medio – orientali e della capacità di agire e pensare in maniera autonoma di chi vive in questa macro regione. Una visione riduzionistica che non tiene conto della complessità della storia in cui fattori locali e globali si intersecano tra di loro. Il terrorismo jihadista non sfugge a questa osservazione, in quanto è intersezione di pratiche e pensieri occidentali e di pratiche e letture religiose e della società medio – orientali spesso antecedenti all’arrivo del colonialismo. È il caso, ad esempio, del wahhabismo, fazione religiosa dell’Islam sunnita particolarmente dogmatica e radicale, fondata nella metà del XVIII secolo d aMuhammad ibn ‘Abd al-Wahhāb (1703-1792) nella penisola arabica, con l’intento di riportare l’Islam ad una lettura più attenta, severa e “originalista” del Corano e dei suoi precetti. Al wahaabismo appartengono i talebani, Al Qaeda, ISIS e la monarchia assoluta dell’Arabia Saudita.

Lo jihadismo è quindi un fenomeno che ancora a lungo sarà presente nelle nostre vite. Si è ormai propagato al Sahel e in diversi altri Stati africani, contribuendo alla destabilizzazione della regione, con forti ripercussioni in Europa. Lo jihadismo è inoltre ancora presente in diverse aree del Medio Oriente, ma anche nell’Asia. È un fenomeno che unisce Stati e soggetti che altrimenti si contrapporrebbero tra di loro: i paesi europei, gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. È un fenomeno che tutt’oggi influenza le nostra quotidianità per il persistere dello stato di emergenza e delle misure di sicurezza. Non da ultimo è un fenomeno che ha creato, probabilmente, traumi collettivi che non è detto siano stati ancora affrontati.

Consigli di lettura

Per approfondire lo jihadismo si consigliano gli studi di Gilles Kepel, politologo francese dell’università Science – Po di Parigi, reperibili a questo link. Altri consigli di lettura:

  • Del Pero, Mario, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Bari, Editori Laterza, 2011. Un volume utile per inquadrare la prospettiva statunitense sulla guerra al terrore con un’ottica di lungo periodo. Si segnala dello stesso autore anche: Era Obama. Dalla Speranza del Cambiamento all’Elezione di Trump,Milano, Feltrinelli, 2017.
  • Di Fabio, Laura, Due democrazie, una sorveglianza comune. Italia e Repubblica Federale Tedesca nella lotta al terrorismo interno e internazionale (1967 – 1986), Milano, Mondadori, 2018. Il volume tratta principalmente dell’antiterrorismo, e di conseguenza del terrorismo, in Italia e nella Repubblica Federale Tedesca durante gli anni di piombo, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta.
  • Gentile, Emilio, La Democrazia di Dio. La Religione Americana nell’era dell’Impero e del Terrore, Bari, Laterza, 2006. Uno studio utile per comprendere i mutamenti nella retorica dei presidenti statunitensi (e di altri soggetti) all’indomani dell’11 settembre.
  • Lazar, Marc, L’Italie des années de plomb. Le terrorisme entre histoire et mémoire, Paris, Autrement, 2010. Il volume, disponibile solo in francese, tratta l’eredità degli anni di piombo in Italia.
  • Owen, Roger, Stato, potere o politica nella formazione del Medio Oriente moderno, Bologna, Il Ponte, 2005. Utile per comprendere la formazione dello Stato in Medio Oriente.
  • Rose Jackson, Donna, US Foreign Policy in The Horn of Africa: From Colonialism to Terrorism, London, Routledge, 2017. Il volume tratta uno tema che è destinato ad acquisire una centralità sempre maggiore: lo jihadismo nel Corno d’Africa, con la prospettiva della politica estera statunitense.
  • Toaldo, Mattia, The Origins of the US War on Terror. Lebanon, Libya and American Intervention in the Middle East, New York, Routledge, 2013. Sempre dedicato agli Stati Uniti, lo studio di Toaldo analizza le origini della guerra al terrore.
  • Westad, Odd Arne, The Global Cold War, Cambridge, Cambridge University Press, 2005 e anche The Cold War. A World History, New York, Hachette Book Group, 2017. Pur essendo dedicati alla Guerra Fredda, questi studi hanno il pregio di illuminare la storia di lungo periodo dello jihadismo e come questo fenomeno si sia sviluppato.

© Riproduzione riservata