Una rivalità latente tra gruppi mafiosi. Un attentato che provocò vittime collaterali e innocenti. É il 30 giugno 1963. Un’auto con le portiere aperte viene abbandonata nei pressi di Ciaculli. Dopo una segnalazione anonima alla questura di Palermo accorrono sul posto le forze dell’ordine. Il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo di pubblica sicurezza Silvio Corrao, il maresciallo capo dei Carabinieri Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio ed il soldato Giorgio Ciacci ispezionano l’Alfa Romeo Giulietta abbandonata. La situazione appare sospetta. Viene chiamata una squadra di artificieri. Questo perché poche ore prima del rinvenimento dell’auto a Villabate era esplosa una vettura abbandonata di fronte all’autorimessa del boss mafioso Giovanni Di Peri. Erano morte due persone.

A seguito di un’ispezione e del disinnesco di una bombola di gas da parte degli artificieri la situazione appariva sotto controllo. Quando il tenente Malausa aprì il bagagliaio l’auto però esplose. L’Alfa Romeo Giulietta era imbottita di tritolo. Morirono 7 uomini tra carabinieri e artificieri in quella che poi è stata chiamata strage di Ciaculli.

Ma perché l’Alfa Romeo Giulietta era stata imbottita di tritolo? A chi era destinata? Difficile pensare che fosse un attentato “contro le istituzioni”. La mafia non aveva e non ha alcun interesse ad attirare su di sé l’attenzione delle forze dell’ordine. Il tritolo comportò una risposta dura da parte delle autorità giudiziarie. Una forte ondata repressiva si abbatté sulle principali famiglie. Venivano emessi 548 provvedimenti di sorveglianza speciale, di cui 196 con obbligo di assegnazione a soggiorno obbligato[1]. Tra i mafiosi colpiti da queste misure figurava perfino un boss del calibro di Francesco Paolo Bontade, capofamiglia della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù e padre di Stefano, una delle vittime illustri della violenza corleonese e nemico giurato di Totò Riina.

La strage di Ciaculli ha invece a che fare con le rivalità latenti tra gruppi mafiosi. L’auto esplosa era con tutta probabilità destinata ai Greco, una della famiglie palermitane più note e potenti. Va ricordato che negli anni ‘80, nel periodo in cui Riina era al comando la Commissione di Palermo – cioè l’organo di “autogoverno” della mafia – era presieduta da Michele Greco, membro di quella famiglia e tra i detenuti eccellenti durante le udienze del Maxiprocesso di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Per capire chi aveva interesse a colpire i Greco dobbiamo guardare indietro, intorno alla metà degli anni ‘50, quando alcuni mafiosi palermitani entrarono nel traffico degli stupefacenti. La loro posizione era subordinata, svolgevano soprattutto una funzione intermediaria fra la fase della raffinazione, gestita dalla criminalità francese, e la vendita sul mercato statunitense. I mafiosi siciliani, per svolgere questo ruolo, utilizzavano le loro reti di amicizia e parentela che intercorrevano con alcuni membri di Cosa Nostra americana. Due famiglie mafiose palermitane, in particolare, avevano assunto un ruolo di mediazione nel traffico di stupefacenti: i Greco e i La Barbera. Calcedonio di Pisa, stretto collaboratore di Salvatore Greco – il capo della famiglia – si occupava direttamente delle transazioni che intercorrevano con gli altri soggetti criminali. Nel 1962 però Di Pisa veniva accusato dai La Barbera di trattenere parte dei proventi del traffico in cui erano coinvolte entrambe le famiglie. L’accusato del misfatto veniva ritrovato morto pochi giorni dopo. La scomparsa di Di Pisa è ritenuta la causa scatenante di quella che è stata definita la “prima guerra di mafia”, un sanguinoso conflitto della prima metà degli anni ’60 tra due schieramenti rivali, guidati rispettivamente dalle famiglie Greco e La Barbera. Lo scontro portò a vittime da entrambi i lati ma alla fine prevalsero i Greco.

L’equilibrio all’interno della mafia siciliana sembrava ripristinato. In realtà si trattava di un’illusione. La strage di Ciaculli lo dimostra. Dopo i fatti del 30 giugno 1963 le autorità avviarono una serie di indagini. L’ipotesi era quella di un mancato attentato preparato dai mafiosi Pietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti nei confronti del già citato Salvatore Greco, boss di Ciaculli. Torretta e Buscetta (nel frattempo divenuto latitante) finirono rinviati a giudizio ma al processo di Catanzaro del 1968 – la cui istruttoria era stata preparata da Cesare Terranova, altra vittima di mafia – vennero assolti per insufficienza di prove. Anni dopo, cioè nel 1984 Buscetta – diventato collaboratore di giustizia – si dichiarerà innocente per il tritolo di Ciaculli e accuserà Michele Cavataio dell’attentato. Ancora oggi non abbiamo certezze su chi fossero gli autori della strage. Rimangono però pochi dubbi sugli intenti di quell’azione. Ma soprattutto sulle conseguenze dell’esplosione, cioè la morte di 7 persone innocenti.   

[1] Paolo Pezzino, Mafia: industria della violenza. Scritti e documenti inediti sulla mafia dalle origini ai giorni nostri, La Nuova Italia, Firenze, 1995, p. 231.

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