Si sentiva come un “animale braccato” Giuseppe Di Cristina. Capomafia di Riesi (Caltanissetta), personaggio di spicco nel giro dei traffici internazionali di stupefacenti, ucciso in un strada di Palermo il 30 maggio 1978. Pochi giorni prima aveva parlato con i carabinieri della stazione locale; parlò di Cosa Nostra e dei suoi avversari interni: i Corleonesi di Luciano Liggio. Di Cristina decise di “tradire”, passare per “infame” e delatore: da diverso tempo temeva per la sua vita. Il segnale lo aveva ricevuto quando due dei suoi più fidati guardaspalle vennero eliminati. Sperava quindi di utilizzare il nucleo dei carabinieri per rispondere all’offensiva nemica. Calcolo errato. Ma le sue dichiarazioni si rivelarono di grande importanza. Di Cristina fornì un organigramma della famiglia corleonese, rivelando per quegli anni notizie che anticiparono quello che sarebbe accaduto a breve. Il capomafia di Riesi, per esempio, si diceva certo che il giudice Cesare Terranova sarebbe stato ucciso dai Corleonesi (cosa che peraltro avvenne). Affermò che Liggio disponeva di una “squadrone della morte”, quattordici killer a sua disposizione sparsi in tutta Italia. Ma soprattutto Di Cristina rivelò ai carabinieri di Riesi che il boss corleonese – latitante e ricercato all’epoca dalla polizia – affidava gran parte delle mansioni e delle operazioni a due luogotenenti fidati: Bernardo Provenzano e Totò Riina.
L’incontro fra il capomafia e i carabinieri si svolse in un casolare abbandonato, in provincia di Caltanissetta, che apparteneva ad Antonio, fratello del boss. Il colloquio con il capitano dei carabinieri Pettinato durò un’ora. Per non destare dubbi sulla bontà delle sue affermazioni Di Cristina disse ai carabinieri che stava per ricevere una macchina blindata, fornitagli a caro prezzo (30 milioni) da alcuni amici. “Sa, capitano, peccati veniali ne ho e qualcuno anche mortale”[1]. Passò una settimana e i suoi nemici decretarono la sua morte, poco prima che potesse ricevere la nuova auto.
I poliziotti, guidati da Boris Giuliano (ucciso pure lui dai Corleonesi), trovarono nelle tasche del suo cadavere un assegno che consentì di ricostruire uno spaccato del traffico d’eroina fra la Sicilia e gli Stati Uniti.
Ai funerali del capomafia giunsero almeno settemila persone. Il feretro di Di Cristina era seguito da uomini politici, sacerdoti e funzionari pubblici. Gonfaloni e manifesti di lutto invasero un paese totalmente paralizzato dalla morte del boss mafioso.
Di Cristina anticipò l’ascesa dei Corleonesi di qualche anno. Le sue dichiarazioni erano certamente a senso unico, cioè rivolte esclusivamente a colpire i nemici. Ma si rivelarono importanti e verranno confermate da un “pentito per eccellenza”: Tommaso Buscetta.
[1] Saverio Lodato, Venti Anni di Mafia. C’era una volta la lotta alla mafia, Rizzoli, Milano, 1999, p. 23.
Questo articolo fa parte della serie Il pentitismo nella lotta alle mafie. Fanno già parte della serie Il caso Buscetta , Leonardo Vitale , Joe Valachi e Salvatore Contorno.
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.