Sentiamo spesso parlare di Medioevo, ma cosa sappiamo realmente? È prassi comune affiancare questa epoca a termini quali “chiusura mentale”, “maschilismo”, “ignoranza”, “oscurità”, “religiosità” (in senso negativo), ma la verità è di ben altra fattura.

Innanzitutto, quali sono i due antipodi, i poli, che la storiografia e la tradizione assegnano? Uno è il 476 d.C., anno in cui l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augusto (detto “Augustolo”), venne deposto da Odoacre, quindi il Medioevo ebbe il suo capitolo iniziale con la “fine dell’antichità” e l’“inizio dell’età barbarica”, dove con “barbarico” si dovrebbe intendere dei “non-latini” (e “non-greci”), i barbari, appunto, ma il senso viene stravolto dall’aspetto dispregiativo della parola barbaro. L’altro è il 1492, la scoperta dell’America e le conseguenti espansione del concetto di mondo e caduta dell’Europa quale centro dell’umanità. Il 476 e il 1492, però, non sono unilateralmente accettate, né hanno una valenza assoluta, in quanto il concetto di “epoca medievale” muta a seconda del tempo, l’argomento, il territorio e il modo di pensare.

L’immagine dei “secoli bui” e il termine stesso “Medioevo” (età di mezzo, fra l’antichità e gli uomini del Tre-Quattrocento) nacquero con gli Umanisti e il Rinascimento, dove uomini come Francesco Petrarca o Filippo Brunelleschi vollero distanziarsi da una realtà che, per gli abitanti medievali, rappresentava la perdita, la scomparsa di un’era dorata, fatta di grandi uomini e menti, e verso cui provavano un sentimento di minimizzazione, di non essere all’altezza, motivo dietro gli spasmodici tentativi di replicare (quanto più possibile) il “glorioso passato”, non rendendosi conto del tesoro inestimabile presente.

Quando si va ad analizzare – o semplicemente osservare – il Medioevo, la prima cosa che deve essere notata è la pluralità, conseguenza di una crisi dell’Impero romano d’Occidente iniziata molto tempo prima del 476 e all’origine dei “regni romano-barbarici”, sorti al suo interno, non come un cancro, che va fagocitando e distruggendo l’ospite, ma un embrione, accresciutosi in feto grazie al “nutrimento” della civiltà latina e andato a ereditare quanto il “genitore” gli aveva lasciato, migliorandolo e portandolo a nuova bellezza. Concetti quali “governo del popolo” o “democrazia” non scomparvero, certo, vi erano reami assoluti, specie durante l’Alto Medioevo, ma, col passare del tempo, nacquero forme politiche sempre più aperte (entro certi limiti); esempi sono i comuni italiani, sorti a partire dall’XI secolo e dotati di organi di rappresentanza cittadina, e le Cortes (o Corts) iberiche, assemblee di lunga tradizione composte da delegati di clero, nobiltà e popolo e dotate di un potere – mano a mano accresciutosi – capace di negare fondi ai re o bloccare l’emanazione di leggi. Le antiche province romane (e non solo) tornarono ad interloquire tramite l’azione di mercanti e navi battenti i colori di Amalfi, Genova, Pisa, Venezia, Aragona, Francia, Portogallo e altri, mezzi di comunicazione di un mondo tutt’altro che immobile, vivo, dai percorsi calcati (per affari o religione) che toccavano luoghi lontani e facevano conoscere una moltitudine di merci frutto dei rapporti con gli arabi e la loro competenza. Non vi era più Galeno, celebre dottore della corte imperiale, ma una squadra di medici, fortuna della scuola medica salernitana, divenuta uno dei centri di primordine grazie a figure quali Costantino l’Africano, formatosi in terra araba, etiope, indiana e persiana, e Trotula, una donna, forse la più celebre, stimata e rispettata nel suo settore. Platone, Aristotele e Cicerone avevano lasciato il passo agli allievi, Avicenna, san Tommaso d’Aquino e Averroè. Vitruvio, il grande architetto, avrebbe mostrato ammirazione per le titaneggianti strutture dei colleghi operanti con stili Romanico e Gotico. E ancora: da un lato Tucidide e la storia della Guerra del Peloponneso, o Tacito e la descrizione della Germania, e dall’altro Marco Polo, protagonista di viaggi verso l’Oriente mongolo e i Villani con la loro Cronica; dal romano Giulio Cesare, conquistatore delle Gallie, al franco Carlo Magno, signore d’Italia ed Europa; politico e letterato fu Marco Aurelio e come lui il poeta Dante Alighieri, il cui genio andò ben oltre la Divina Commedia.

Si potrebbe andare avanti chiamando al tavolo del confronto altresì i grandi vissuti in epoca moderna e contemporanea, coi miniaturisti dei monasteri benedettini o i pittori Giotto e Cimabue che non avrebbero avuto niente da invidiare a Claude Monet, Vincent van Gogh, Salvador Dalí o William Turner; e poeti quali Petrarca e novellisti come Boccaccio, e le sue dieci giornate, e Chrétien de Troyes, con il ciclo arturiano, avrebbero dato filo da torcere ai letterati Jules Verne, Oscar Wilde e Pier Paolo Pasolini.

A chi, di risposta, avanzasse le carte della Santa Inquisizione, della corruzione della Chiesa o dei centinaia di uomini spirati per una causa, quella crociata, che potrebbe esser definita inutile, voglio replicare che fanno bene a ricordare tali elementi – rappresentanti alcune  delle classiche accuse al Medioevo –, ma consiglio di non essere affrettati e superficiali e di analizzarli più da vicino. L’Inquisizione – enfatizzata dai posteri e non proprio del tutto medievale –  fu un capitolo triste nella storia umana, ma non rappresenta niente che non possa essere interpretato come una versione (brutale) darwiniana del “difendere la propria esistenza”, poiché il sorgere di certi modi di pensare e vivere – magari in precisi territori – avrebbe potuto far evaporare credibilità e autorità di Chiesa e signori. Riguardo alla corruzione, è vero, spesso gli ecclesiastici (e i laici) si macchiavano di peccati legati al denaro (es. usura o simonia, cioè la vendita delle cariche), però non bisogna considerare l’intera realtà quale nido di tali nefandezze, ricordandosi del “poverello d’Assisi” Francesco e i suoi Frati Minori, devoti a Madonna povertà. Infine, le crociate: il nostro modo di ragionare è lontanissimo da quegli uomini – si veda il caso delle reliquie –, per questo ci risulta difficile concepire di abbandonare tutto e morire per una terra lontana, per delle vecchie pietre o santuari nel deserto, circondati dai nemici e lontani dagli alleati. La fede (e le speranze di una nuova vita o ricchezze) muoveva  queste persone, desiderosi, formalmente, di salvare le testimonianze del passaggio terreno di Cristo. A noi (non tutti) apparirà sicuramente assurdo, ma non dobbiamo pensare di esser troppo diversi, noi, ciechi seguaci dei tanti spettri del complotto, noi, che abbiamo sostituito la Croce con la mela addentata, l’icona della Vergine coi selfie su Instagram e oggetti sacri come la corona di spine con l’ultimo modello di Iphone.

Visto che stiamo toccando il tema della Chiesa cristiana, voglio approfittarne per sfatare uno dei tanti miti sul Medioevo: la “chiusura e ottusità mentale”, affiancate da una indiscutibile lealtà a quanto pronunciato da Roma (o Avignone). Ovvio, esistevano uomini e donne del genere – ed esisteranno nei secoli a venire –, ma vi furono anche personaggi – oltretutto religiosi – che, senza negare l’esistenza di Dio, diffidavano dei testi sacri e i dogmi: è il caso del francese Pietro Abelardo e l’inglese Guglielmo di Ockham, entrambi filosofi e uomini di fede. Abelardo sosteneva che tutto va posto in discussione, non importa quale autorità del settore ne parli: non bisogna accettare qualcosa senza essersi posti delle domande o aver approfondito tramite indagini. Ockham è l’autore di scritti dove si afferma di non dare per sicuro ciò che non possiamo confutare empiristicamente, coi fatti, per questo obiettò addirittura sull’esistenza dell’anima e la conoscenza dell’ordine universale e la natura di Dio, poiché irraggiungibili per la ragione umana.

In conclusione, parlare di Medioevo come di un’epoca buia e barbarica è riduttivo e stigmatizzante, poiché tali accuse ignorano quello che è stato realmente, quanto potremmo imparare da esso e il patrimonio di cui siamo debitori.

Articolo a cura di Gianluca Lorenzetti. Per L’Eclettico ha già pubblicato L’eterno legame fra Dante e Venezia, Strade vuote e negozi chiusi: l’emergenza Coronavirus vista attraverso la letteratura e Catalogna indipendente: una lotta a tinte oro, rubino e blaugrana.

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