Trent’anni fa crollava l’Unione Sovietica. La fine di un’epoca, secondo molti, nonostante molte delle questioni che essa celava si manifestino tutt’oggi. Per molti fu anche la fine della Guerra Fredda, nonostante l’arrivo di Gorbačëv alla guida dell’URSS e le sue riforme, da un lato, assieme al crollo del muro di Berlino avessero portato ad una nuova cooperazione non solo tra le due potenze, Washington e Mosca, ma anche tra le repubbliche sovietiche e la comunità internazionale, come nel caso della Prima Guerra del Golfo, unico conflitto dove Stati Uniti e URSS combatterono affianco per un comune obiettivo: la restaurazione dell’ordine regionale – e dunque globale – violato.

Il crollo dell’Unione Sovietica ha anche avuto un impatto molto forte sulle persone che nella cornice della Guerra Fredda non solo avevano vissuto, ma talvolta si erano sacrificate o avevano creduto con forza agli ideali che circolavano in quegli anni. Aspetto spesso sottovalutato, quello della generale delusione e disillusione che seguì il crollo dell’URSS e la fine della Guerra Fredda, può invece aiutare a capire molte delle dinamiche socio – politiche e relazionali che viviamo oggi. Delusione e disillusione che potremo collocare sotto la generale etichetta di fine delle grandi narrazioni, intendendo con questa un confronto, non necessariamente violento o basato sulla binarietà USA – URSS, sulla lettura del passato e del presente per dare slancio al futuro, criticando al contempo l’ideologia socio – economica dominante. Gli effetti di questa fine si notano nella predominanza di un’unica grande narrazione, quella del capitalismo, ideologia predominante nonostante con lo strumento del “realismo” tenti di porsi come non – ideologia, quindi come realtà assoluta. Vale a dire come unica soluzione possibile – come del resto sintetizzava Margaret Thatcher con lo slogan «There’s no alternative»– preconizzando la fine della storia, intesa come impossibilità di ottenere un sistema differente da quello vigente, le cui conseguenze le si scontano oggi in un tempo che è a-storico e dominato dalla ripetizione e dalla standardizzazione del lavoro, sovrastruttura dell’ideologia capitalistica. Tanto della disillusione e della delusione sono quindi ascrivibili all’apparente impossibilità di immaginare e raccontare un’alternativa alla realtà vigente, finendo così per dar adito ad un cinismo dilagante.

Questi temi sono stati spesso affrontati in maniera magistrale dall’arte. Sia che fosse la musica – si pensi ad esempio alla canzone Political World di Bob Dylan e al suo ultimo album Rough and Rowdy Ways dove il menestrello di Duluth canta dello spaesamento, altro tema fondamentale, dovuto alla fine di un’epoca. Sia che fosse nel cinema, dove alcuni magistrali film di Nanni Moretti hanno prima anticipato (Palombella Rossa, 1989) e poi raccontato (Caro Diario, 1993; Aprile, 1998) l’incapacità della sinistra di dare risposte e di reinventarsi di fronte al cambiamento – incapacità che perdura tutt’oggi assieme a quella delusione di cui si diceva e che emerge anche nel penultimo lavoro di Moretti, Santiago, Italia (2018). Sia che fosse nella letteratura: lo scrittore Pier Vittorio Tondelli scriveva già negli anni Ottanta non solo di una nuova generazione che si muoveva in Europa, ma anche e soprattutto di una generazione che si muoveva e si muove all’interno di un vuoto, ancora per lui non definito – e indefinibile vista la prematura morte per AIDS nel 1991. Un disagio generazionale, quello dei baby boomers e dei nati negli anni Quaranta, e dell’amara e triste fine dei sogni e delle speranze degli anni Sessanta e Settanta raccontato con chiarezza da Tim O’Brien in Luglio per sempre (2004). Fine che talvolta lasciò e lascia molti spaesati, trovando talvolta rifugio nella scelta di non vedere, come in Pastorale Americana (1997) di Philip Roth, oppure soli di fronte ad un vuoto incolmabile e a un senso di malessere e, ancora, spaesatezza come in molti dei personaggi che affollano i romanzi di Amos Oz, tra cui Fima (1991).

Ma forse lo scrittore che più di tutti ha saputo esprimere il disagio, la spaesatezza, la delusione e la disillusione è stato Luis Sepulveda. Ciò, certamente, anche per ragioni biografiche: Sepulveda fu militante comunista in Cile, membro della protezione personale del Presidente Salvador Allende, si unì a quel che rimaneva dei guerriglieri del Che in Bolivia dopo la morte di quest’ultimo; lui e la moglie torturati dal regime di Pinochet, una rocambolesca fuga nel Sud America per unirsi ai guerriglieri sandinisti, l’impegno politico e ambientalista in Europa, dove fu esule ed apolide, che durò fino alla morte per Covid – 19 nel 2020. Grazie al noir Sepulveda – e i suoi compagni scrittori che si riunivano intorno alla Semana Negra, festival letterario creato dallo scrittore Paco Ingacio Taibo II a cui prendevano parte scrittori quali Osvaldo Soriano, Daniel Chavarria, Bruno Arpaia, Vázquez Montalbán solo per citarne alcuni – riusciva a rievocare i temi che abbiamo fino ad ora citato. Sono proprio le caratteristiche del noir – che Sepulveda e compagni declinavano nella particolare accezione “mediterranea” – fino ad allora stile letterario considerato poco incline a riflessioni sociali e politiche, ad aiutare lo scrittore cileno: l’ambientazione tra le ombre, tra le pieghe della storia, in cui non vi è una contrapposizione netta tra bene e male ed in cui il protagonista è attanagliato da dubbi e contraddizioni, da angoscia e dilemmi esistenziali. I protagonisti sono degli anti eroi che si trovano a dover agire non tanto per far trionfare il bene, quanto perché sono invischiati negli accadimenti, mostrando così l’opacità di un tessuto sociale in cui non si riconoscono quasi più i confini tra bene e male – anzi dove queste categorie sfumano di senso di fronte alle trame criminose. Un genere così è estremamente ospitale per uno scrittore che vuol parlare del cinismo di alcuni, dello spaesamento e della delusione – disillusione di altri, criticando la deriva della società. Sarebbe inutile qui fare un elenco di tutti i romanzi e i racconti in cui Sepulveda si è servito del noir o ha semplicemente raccontato i dilemmi di una generazione e il senso di quel che si prova di fronte alla fine delle grandi narrazioni – e all’assenza di una reale alternativa ad un sistema che, evidentemente, per molti non funziona – che accomuna più generazioni, comprese anche quelle più giovani. Un senso di prigionia, di impossibilità di fuga che si trasforma nella quasi impossibilità di agire:

«Si esilia chi non ha conosciuto che un lato della medaglia e porta i suoi errori più in là di dove li ha appresi, ma chi ha attraversato tutto il tunnel scoprendo che entrambi gli estremi sono vuoti rimane prigioniero, appiccicato come una mosca alla striscia coperta di miele. La luce non esisteva. Non era altro che un’invenzione febbricitante, e lo splendore ospedaliere del posto in cui abiti ti dice che vivi in un luogo senza uscita, e che ogni giorno che passa invece di darti serenità, saggezza, astuzia per tentare la fuga, si trasforma in un altro anello della catena che ti trattiene. E ti puoi muovere, o credere di farlo, di avanzare in qualsiasi direzione, ma anche le frontiere si allontanano in progressione geometrica rispetto alla lunghezza dei tuoi passi. No, Alì. Da qui non esco, a meno che non accada un miracolo, e noi vecchi guerriglieri non abbiamo né il tempo né il coraggio di aggrapparci a nuovi miti. E già abbastanza difficile prendersi cura delle sepolture di quelli che abbiamo avuto». (Un nome da torero, Guanda,1994, p.28)

In poche righe Sepulveda ha espresso delle tematiche per lui autobiografiche ma che riguardano una generazione e un disagio intergenerazionale. L’essere apolidi, perché non si appartiene più a nessun ideale, ma solo a sé stessi – e in tal senso, si può dire per estensione, si è proletari. L’esilio, dunque, perché ciò in cui si credeva e si amava ha respinto, lasciando delusi e disorientati perché i sogni sono diventati pietra al cospetto della nuova aridità del mondo. Prendersi cura delle sepolture è quindi anche questo: fare i conti con il passato, con ciò che non è più, ma anche col presente, con l’assenza di prospettive. Per Sepulveda, però, ciò non doveva lasciare spazio al cinismo: tutt’altro. Per lo scrittore cileno era necessario saper immaginare e raccontare un mondo diverso per resistere e cambiare lo stato delle cose – si veda il libro intervista con Bruno Arpaia, Raccontare, Resistere (2002). Non perdere la speranza senza «pensare che si tratti di un possibile piano di fuga. No. Nessuno di noi è così idiota da proporsi una cosa del genere. Si tratta semplicemente di un…come spiegarti? Un gioco affascinante contro le avversità nel quale l’unica cosa davvero importante è conquistarsi la possibilità di continuare a sognare» (Incontro d’amore in un paese in guerra, Guanda, 1997, p. 92).

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